I festival indie e il "Tao dell'imboscarsi"
Dall'Apolide al Balla coi Cinghiali, gruppi ed etichette indipendenti si danno alla macchia. I festival nel bosco sono l'alternativa ai palchi mainstream e alla ressa da “concertone”. Chiacchiere coi Tre Allegri Ragazzi Morti
È storia recente, ricordi? Ascolta, respira: non c'era la calca soffocante dei palazzetti, la ressa per i token – i gettoni che ormai in tutti gli eventi servono anche per le birre –, la fila da ufficio postale al bancone. C'erano festival dove si andava per ascoltare, appagati già dal fatto di sentirsi pionieri, e un pubblico che era come uno specchio, altri esploratori di suoni diversi dall'ortodossia del pop e del rock blasonato. Ora che i The Giornalisti riempiono il Circo Massimo, all'epoca dei passaggi in radio e dei talent televisivi, del definitivo consolidamento dell'indie italiano come nuovo mainstream, che cosa cambia per quelle etichette e quei gruppi che hanno fatto dell'aggettivo “indipendente” il proprio brand? Un termine che, come dice bene Francesco Prisco su IL, “in origine indicava le produzioni concepite oltre i confini delle major. Indie non era un genere, ma un contesto produttivo”: produzioni low budget che “avevano in comune approccio e, spesso e volentieri, suono poco allineato”.
Un decennio di primizie un po' impolverate, che va dal Teatro degli Orrori del 2009, indietro fino al primo album degli Offlaga disco pax, o al primo dei Babalot (per solutori più che abili; fuori dal menù di Spotify). E ancora più in là, oltre la comparsa della mitica 42 records, c'erano i Baustelle e i Tre Allegri Ragazzi Morti, a prendere il posto dell'alternative rock di maggiore successo. “Già, questi sono tempi strani”, ci dice Enrico Molteni, che dei TARM è il bassista e che 19 anni fa ha fondato La Tempesta Dischi, l'etichetta che ha pubblicato, tra gli altri, Le luci della centrale elettrica e i Massimo Volume, Giorgio Canali, i Sick Tamburo e gli Zen Circus. “Oggi la musica è on demand – dice – e puoi vedere immediatamente quanto un album o una canzone sono scaricati, ascoltati, condivisi. Sembra passare il concetto che se hai più ascolti sei più figo. È chiaro che non è sempre così”. Insomma, in un mondo di fast listening, dove “virale” diventa più importante di “originale”, che fine hanno fatto quei festival e quei sound che facevano dell'essere innovativi la loro bandiera? Alcuni si sono dati alla macchia: per trovarli bisogna inoltrarsi nei boschi. Come avrebbe detto Sun Tzu? “Se cambia il terreno attorno a te, preparati a ripiegare”, o qualcosa del genere. È il “Tao dell’imboscarsi”.
Per esempio, dal 22 al 24 agosto al Forte di Vinadio, capolavoro di ingegneria militare tra le Alpi di Cuneo, torna Balla coi Cinghiali. Su tre palchi suoneranno Myss Keta, 47soul, Cromo, I Miei Migliori Complimenti, gli Shandon e altri. Dal 17 al 21 luglio al Woodoo Fest, il “bosco” sembra più una riserva, scampata per sorte alle lamiere della zona industriale di Cassano Magnago, Varese, incorniciata tra S.r.l. e capannoni. E poi c'è il più indie e boschivo di tutti: l'Apolide, dal 18 al 21 luglio a Pianezze di Vialfrè. “Mezz'ora di macchina da Torino e una da Milano”, spiega al Foglio Salvatore Perri, che all'Apolide lavora da 16 anni – “siamo diventati grandi insieme”, dice – e oggi ne è direttore artistico. “Apolide non è solo una rassegna di concerti ma un'esperienza a tutto tondo, che si è modificata negli anni. Certo, sono ottanta ore di musica, da giovedì a domenica, su tre palchi. Ma poi ci sono i talk, le escursioni, lo sport, gli spazi per le famiglie. Concerti e musica dettano i battiti del festival ma poi ti scontri con cose che non ti aspettavi, ti puoi rilassare, non è un luogo sovraccarico di persone, con spazi piccoli e affollati ma una sorta di villaggio in un bosco”.
I Tre Allegri ragazzi Morti (foto ©Ilaria Magliocchetti Lombi)
“Stare tra gli alberi darà al tutto un senso più psichedelico”, dice al Foglio Davide Toffolo. Il frontman dei Tre Allegri conferma che “il punto centrale è che chi partecipa è interessato soprattutto alla musica. Non c’è quella dimensione 'da sballo' del maxi evento, del festival immenso”. Venerdì 19, La Tempesta sarà la protagonista assoluta del festival, con La Tempesta nel bosco, “la nuova edizione del nostro festival itinerante, che proviamo a realizzare ogni anno”, ricorda Molteni. “La cosa eccezionale del bosco è la possibilità di suonare 24 ore su 24, perché non ci sono vicini, è uno spazio libero dove puoi piantare le tende e fermarti”. Sui tre palchi si alterneranno il supergruppo I Hate My Village, composto da Adriano Viterbini (dei Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro35/Afterhours), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle), poi Giorgio Canali & Rossofuoco, i Sick Tamburo e Populous oltre ai TARM in tour con “Sindacato dei sogni”.
Anche per gli organizzatori le cose stanno cambiando: “È diverso il pubblico, che ora per più della metà è femminile, ed è diversa la scena”, spiega ancora Perri. “Musicisti come I Cani o Calcutta hanno stravolto le regole del gioco, certo, ma hanno anche fatto rinascere un business nella musica, finalmente: mancava un ricambio generazionale. La differenza è che adesso va tutto più veloce. I TARM hanno avuto modo di fare una gavetta in senso 'tradizionale', mentre i nuovi gruppi hanno avuto la spinta di internet. Spesso nasce una tendenza e tutti ci si accodano ma sopravvive chi non è semplicemente la copia di qualcos'altro. Tra il 2015 e il 2018 ci sono state band che hanno dimostrato capacità e motivazione per avere lunga vita”.
Intanto, chi vuole sentire il vecchio groove, può iniziare a incamminarsi al fresco di un bosco. Ascolta, respira.