Battisti sulla Luna
Il 1969 è anche l’anno della rivoluzione della musica italiana. Capelli ricci e foulard al collo, oggi i cantautori sono tutti figli suoi
Il giorno che Neil sbarcò sulla Luna, Lucio se ne stava in hit parade già da nove settimane. E il bello doveva ancora arrivare. Perché quell’estate del 1969, l’anno che cambiò la musica tra Inghilterra e Stati Uniti, avrebbe lasciato il segno anche nella musica di casa nostra, consacrando definitivamente la stella del suo più influente innovatore.
Lucio Battisti da Poggio Bustone fino a quel 1969 era stato per lo più un autore di canzoni. In coppia con il paroliere Giulio Rapetti-Mogol, figlio d’arte, aveva firmato qualche successo per altri, come “29 settembre” dell’Equipe 84. Poi, vincendo una sua ritrosia, si era convinto di cantare lui le sue composizioni. E in quel ’69, a quasi 26 anni, aveva debuttato a Sanremo con “Un’avventura”. Non era andata benissimo ma neanche troppo male, un dignitoso nono posto. L’Italia cominciava a prendere confidenza con la sua zazzera e con la sua vocina (una critica d’autore apparsa sul Giorno sostenne che si sentivano “chiodi che gli stridono in gola”), così fuori dagli schemi precostituiti. Quella “vocina” che però non sgarrava una nota e che sarebbe stata in grado da lì a breve, di cantare con Sua Maestà Mina nel più memorabile duetto della storia della televisione italiana, senza sfigurare. Ma quel leggendario medley in bianco e nero arriverà dopo. Prima ci vorrà l’estate del 1969. Quella in cui Lucio Battisti si prese la musica italiana per non lasciarla più.
Aveva firmato qualche successo per altri e poi si era convinto di cantare lui le sue composizioni. Il debutto a Sanremo nel 1969
Il 1969 è un anno speciale per la musica. Dall’albero del pop rock cresciuto robusto nei Sixties si dipartono i rami che cresceranno negli anni Settanta, l’hard rock, il progressive, la fusion. I Sessanta se ne vanno, i Beatles, protagonisti del decennio, sono pronti a sciogliersi e consegnano ai fan il loro canto del cigno, lo splendido “Abbey road”. I Led Zeppelin pubblicano i loro primi due album, i King Crimson battezzano il prog, Miles Davis dà alle stampe l’innovativo “In a silent way”. L’Italia sconta ancora un certo ritardo. A Sanremo quell’anno vincono Bobby Solo e Iva Zanicchi con “Zingara”, di misura su Sergio Endrigo con “Lontano dagli occhi”. Canzoni importanti, ma ancora ancorate a un passato musicale che ne paese ha resistito ai Sessanta. Ma l’Italia sta cambiando, scossa da tensioni e da un fuoco che cova e che da lì a breve esploderà negli Anni di piombo. Il ’69 finirà con Piazza Fontana e l’inizio della stagione stragista. Ma per tutto l’anno, violenze e tensioni politiche caratterizzeranno le cronache. E’ l’anno dello scontro sempre più marcato fra il mondo autonomista operaio “incazzato” appoggiato dalla sinistra extraparlamentare contro i sindacati confederali. A sinistra i socialisti si spaccano definitivamente in due. A destra Giorgio Almirante succede ad Arturo Michelini alla guida del Movimento sociale, mentre da lì a un anno il principe nero Junio Valerio Borghese tenterà il suo golpe, abortito. In agosto scoppiano le bombe sui treni (otto in tutto, provocano dodici feriti), è il preludio della strategia della tensione.
Insomma, il 1969 è un anno di passaggio. I giovani italiani hanno imparato ad amare le nuove sonorità importate dall’Inghilterra, i Beatles e i Rolling Stones su tutti. Sono gli anni dei “capelloni”, che Totò in un episodio di “Capriccio all’italiana” del 1968 (il suo ultimo film) rapiva per raparli a zero. Capelloni come il ragazzo di Poggio Bustone che quella musica d’Oltre Manica e d’Oltre Oceano, l’R&B nero soprattutto, comincia a masticare e rielaborare incrociandola con gli stilemi della melodia italica. Per la musica nostrana è arrivato il tempo di sprovincializzarsi, il terreno è pronto per l’Innovatore che compia dalle nostre parti quello che è riuscito ai Beatles sulle due sponde anglofone dell’Atlantico. E Lucio Battisti, con la sua chitarra, si presenta puntuale all’appuntamento.
David Bowie lo adora, e scrive il testo inglese di “Io vorrei non vorrei ma se vuoi” (“Music is lethal”) incisa dal chitarrista Mick Ronson
A fine marzo esce il singolo “Acqua azzurra acqua chiara”. Il testo di Mogol racconta della vita dissoluta di un uomo che passa le sue notti sempre con donne diverse, e che cambia conoscendo una ragazza che lo fa innamorare con la sua purezza. Quella purezza resa metaforicamente con l’immagine dell’acqua proprio come accadrà nel 1971 con “La canzone del sole”. Sul lato B c’è “Dieci ragazze”, su cui Battisti e Mogol avevano pensato di puntare. Si racconta che sia stato Renzo Arbore, ascoltando in anteprima i due brani, a convincerli che l’altro pezzo fosse migliore. Vera o no la storia, “Acqua azzurra acqua chiara” mette le ali a Battisti. Il tormentone entra in hit parade per restarci una decina di settimane. Vola al Cantagiro ma senza vincere (arriva terzo) e poi sbanca il Festivalbar, consegnando il successo e la gloria a Battisti in quella lunga estate del ’69, l’estate della Luna e di Woodstock.
Ad aprile, per presentare la canzone, Battisti partecipa per la prima volta a un programma televisivo, ospite di Renzo Arbore. Il cespuglio di capelli ricci e il foulard al collo diventano presto un’icona, che ispirerà monologhisti come Walter Chiari e imitatori come Alighiero Noschese.
Il disco è un gran disco. Egregiamente suonato da signori musicisti, sessionmen di lusso. Con Battisti c’è mezza Pfm (all’epoca si chiamano “Quelli”): Franco Mussida alla chitarra, Flavio Premoli al piano e Franz Di Cioccio alla batteria. Alla chitarra elettrica il virtuoso Alberto Radius della Formula 3. Gli arrangiamenti sono di Detto Mariano, ancora molto “Sixties” ma robusti ed efficaci (il fraseggio d’orchestra di “Acqua azzurra” cinquant’anni dopo è ancora cantato nelle schitarrate da spiaggia). Da lì a poco irromperà nei dischi di Lucio il tocco magico di Gianpiero Reverberi che con la potenza dei suoi archi metterà definitivamente le ali al ritornello battistiano, marchio di fabbrica dell’artista di Poggio Bustone. Ma per quello si dovrà attendere ancora un po’, fino al 1971, quando Battisti si libererà dal contratto con Ricordi e sfornerà i suoi dischi con l’etichetta Numero Uno che proprio nel 1969 Mogol battezza insieme al socio, con un marchio disegnato da Guido Crepax. In quel 1969 la Numero Uno pubblica il suo primo disco, ovviamente firmato Battisti-Mogol: è “Questo folle sentimento” della Formula 3, un sound dalla vena rock, vagamente psichedelico, perfettamente in sintonia con i tempi.
Intanto, Battisti ha raccolto i suoi singoli in un album, uscito a marzo. Il disco si chiama come lui e raggiunge la prima posizione in classifica. Sarà il terzo LP più venduto in Italia in quell’anno. Sarebbe già tutto perfetto così, ma l’anno magico di Battisti non finisce qui. Dopo il successo del suo tour estivo, 21 serate, e la vittoria al Festivalbar, Lucio colpisce ancora. A ottobre esce il singolo “Mi ritorni in mente”, storia di un amore finito male, che con un sontuoso arrangiamento di Detto Mariano volerà al primo posto dell’hit parade. Ancora una volta, Battisti conferma la sua cifra d’innovatore, ammiccando alla tradizione melodica sanremese ma spezzandola con un innesto rockeggiante (“Ma c’è qualcosa che non scordo…”) che racconta di come i tempi stiano cambiando e con essi i gusti dei giovani nostrani. Mogol si conferma molto bravo a raccontare piccole storie in pochi versi, con piglio cinematografico. Lo fa nel lato A ma anche nel lato B del singolo, “7 e 40”, che diventa un altro evergreen. Lo farà mirabilmente anche l’anno dopo con “Fiori rosa fiori di pesco”, quasi un cortometraggio in musica su un’altra storia senza lieto fine.
“Acqua azzurra acqua chiara” mette le ali a Battisti. Il tormentone entra in hit parade per restarci una decina di settimane
Canta l’amore Battisti, i sentimenti, la quotidianità e le piccole cose. Non lo seduce “l’impegno” che piace ai nascenti cantautori e per questo la sinistra lo sentirà sempre come un corpo estraneo, anzi, nascerà e si diffonderà la leggenda di un Battisti “nero”, di destra, con una lettura forzata di certi versi di Mogol come quello de “La collina dei ciliegi” che evoca i “boschi di braccia tese”, interpretati come un saluto romano di massa. Ma il ragazzo di Poggio Bustone da subito mostra un lato chiave della sua personalità d’artista, cioè l’indifferenza verso le critiche superficiali e il rifuggire dalle pose da divo. “Lucio Battisti deve essere giudicato per le canzoni che scrive e per le canzoni che canta”, dice. Tanto che nel ’70 alla fine del suo secondo tour, decide di farla finita con i concerti, proprio come nel 1966 avevano fatto i Beatles, che avevano scelto di dedicarsi solo alla loro attività in studio. E’ un altro parallelo tra Battisti e il quartetto di Liverpool: il desiderio di essere musicista e non fenomeno da baraccone. “Intanto, non vivi e, come ho detto, io intendo seguire questa professione, intendo guadagnare, intendo divertirmi, intendo avere successo, ma intendo anche vivere – spiegherà nel dicembre 1970 – Non solo, ma le ripercussioni più grandi quali sono? Proprio quelle del lavoro: e chi me lo dà il tempo di stare la mattina, da quando mi alzo, dalle otto alle quattro del pomeriggio, con la chitarra a suonare? Perché, ripeto, le canzoni mica scaturiscono così”.
La leggenda del Battisti “nero”. “Devo essere giudicato per le canzoni che scrivo e per le canzoni che canto”, dice lui
E sempre nel ’69 succede qualcosa più unica che rara per Battisti, cioè un suo brano sfonda in Inghilterra. Il successo sui mercati anglofoni mancò per tutta la sua straordinaria carriera al cantautore italiano, malgrado la stima di mostri sacri della scena inglese come Pete Townshend degli Who, suo estimatore, o David Bowie, che letteralmente adorava Battisti, tanto da scrivere il testo inglese della versione di “Io vorrei non vorrei ma se vuoi” (“Music is lethal”) incisa dal suo amico e chitarrista Mick Ronson. Eppure, in quel 1969, a riprova che il sound di Battisti ha allineato la musica italiana al sentiment internazionale del tempo, proprio come aveva fatto Modugno prima di lui, una canzona battistiana arriva in vetta alla classifica britannica. E’ la cover di un pezzo minore scritto l’anno prima da Battisti e Mogol per La ragazza 77 (al secolo Ambra Borelli, figlia di un funambolo) e passato inosservato. In italiano si chiama “Il paradiso della vita”, in inglese diventa “If Paradise is half as nice”. La incidono gli Amen Corner – è il loro singolo di debutto – e volano al numero uno nelle charts inglesi dove restano per due settimane. Patti Pravo la importerà di nuovo in Italia in una versione di successo, sempre in quel magico 1969.
Nel giro di un paio d’anni, tra il 1969 e il 1970, l’anno di “Emozioni”, le canzoni di Lucio Battisti diventano rapidamente un faro per la scena musicale italiana. La sua influenza sugli altri musicisti assume in men che non si dica un peso che non ha paragoni. E si protrae per tutto il decennio successivo e anche negli anni ottanta. Cantanti e autori tra loro lontanissimi incidono sue cover e pubblicamente ne tessono le lodi. La sua cifra cantautoriale sarà celebrata ad esempio anni dopo dal Principe, Francesco De Gregori, che a Battisti dedica più di un omaggio nella sua discografia, dall’attacco d’orchestra de “La leva calcistica della classe ‘68”, evidente tributo all’irrompere degli archi di “Vento nel vento” a “La donna cannone”, il suo pezzo più à la Battisti, con l’esplosione del ritornello tipica dei grandi pezzi del 1971 e 1972 del cantante di Poggio Bustone. Da Vasco Rossi a Ligabue, da Claudio Baglioni (che nel 1981 inciderà il suo ottimo “Strada facendo” con gli arrangiamenti di Geoff Westley, produttore di Battisti a fine anni Settanta) ai Litfiba, i grandi della musica leggera italiana hanno tributato al genio dell’Innovatore una lunghissima serie di omaggi. Tutti figli suoi, in un modo o nell’altro. Tutti eredi di una grande storia italiana cominciata nell’estate in cui Neil sbarcò sulla Luna, cinquanta anni or sono.