Jazz di Ferragosto

Una spiaggia sul mare del Nord e il ricordo di una festa su quella di Ostia qualche decennio prima. Quando Chet Backer il 15 agosto 1985 compose uno dei suoi pezzi più belli. Un racconto

Giovanni Battistuzzi

Il sole gli batteva in faccia già da qualche ora ma non aveva avuto né la voglia né tantomeno la forza di alzarsi dal divano. Si era limitato a mettersi una canottiera sugli occhi e a girarsi dall’altra parte.

 

La casa era un macello di vestiti sparsi dappertutto, bottiglie vuote sul pavimento, palline di carta stagnola lanciate qua e là e rimasugli di cibo che stavano attirando le prime mosche.

 

Dal porto arrivavano i rumori di ogni giorno. Uno sferragliare che conosceva bene a tal punto da essere diventato rumore di fondo. Poi il sireneggiare delle navi in entrata, lo scricchiolio metallico dei container quando venivano impilati, il bipbip intermittente delle gru che svuotavano le stive.

 

Si mise in piedi solo quando la fame iniziò a stringergli lo stomaco come una morsa. Barcollò per il salotto, frugò nel frigorifero, trangugiò un pezzo di pane secco, scolò un fondo di birra che chissà da quando giaceva sgasata nel ripiano in alto. Si schifò di se stesso a tal punto da raggiungere il bagno, sciacquarsi la faccia, raccattare da terra una camicia, infilarsi i pantaloni, acchiappare lo zaino che stava accanto all’entrata ed uscire subito di casa per rifugiarsi nel bar che stava dirimpetto al suo appartamento.

 

Un mezzo litro di caffè, un panino ben farcito, poi una sigaretta per buttare giù tutto.

 

Si sentì meglio.

 

Prese il giornale che stava sul tavolo accanto. Lesse qualcosa che non capì. Quella lingua gli era ancora poco comprensibile. Si limitò a guardare senza troppo trasporto le foto in bianco e nero. Sfogliò le pagine con un disinteresse sempre maggiore, mentre in lui cresceva il desiderio di ritornare a casa, farsi una fumata e godersi la botta. Il termometro però segnava i trenta gradi e l’ultima volta che si era fatto con quel caldo per poco non ci era rimasto secco.

 

E poi doveva suonare. Sapeva di doverlo fare ma non si ricordava bene quando e dove. Si concentrò sulla data sotto la testata del quotidiano. Si accorse solo allora che era il 15 agosto.

 

Guardò fuori dalla vetrata la città che si muoveva. Gli venne in mente quella volta che Antonello Vannucchi lo strappò da Roma e dai suoi incubi e lo portò a mangiare il pesce a Ostia perché, continuava a dire, che “quello non era un giorno come gli altri, era una festa, la festa più bella dell’anno perché la si passava mangiando sardine coi piedi nell’acqua”.

 

Erano passati troppi anni da allora. Ma quel giorno se lo ricordava ancora come fosse ieri. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vedere il mare, le risate, i bicchieri di vino svuotati, poteva sentire ancora quella felicità spensierata invadergli il corpo.

 

Si alzò dalla sedia del bar e si diresse verso la macchina. Aveva voglia di rivedere il mare, di sentire il suono delle onde che raggiungevano la battigia.

 

Rotterdam scompariva sullo sfondo mentre l’orizzonte davanti a lui si apriva, abbandonava i palazzi per perdersi in una piana infinita di campi e serre, sino a incontrare l’ocra macchiato di verde dei montarozzi di sabbia che provavano a coprire il blu verdastro del mare.

 

Un alberello spuntava come un fantasma tra i capelli d’erba che sovrastavano le dune. Si sedette lì a guardare le onde imbiancarsi a riva, mentre qualche persona qua e là chiacchierava distesa sulla sabbia. Non c’erano griglie, non bicchieri alzati al cielo, non il chiacchiericcio gioioso che aveva sentito quel giorno a Ostia. Pensò a quegli anni tra un sorso e l’altro di birra, tra una sigaretta accesa e una spenta. Pensò ai compagni di baldorie di quelle notti italiane, al suo volto di allora che non centrava più nulla con la faccia che aveva oggi e che si rifletteva storpia e sciupata sulla campana dorata della sua vecchia tromba che con sorpresa stava estraendo dallo zaino. Non ricordava neppure quando l’aveva messa lì dentro. Era da settimane che non la trovava.

 

Soffiò nel bocchino e strimpellò qualcosa. Poi si bloccò. Guardò il mare. Sorrise.

 

Prese il blocco di carta dallo zaino. La matita lasciava sul foglio lettere e palline, la sua tromba iniziava a emettere suoni che mai aveva emesso, ma che gli sembravano familiari, quasi li avesse dentro da sempre. Era la sua musica. La musica che non gli usciva da un po’. La tromba per lui era sempre stata un modo per fuggire da se stesso, per provare a inseguire la felicità. Per questo aveva quasi sempre suonato cose altrui. Mettersi a scrivere voleva dire guardarsi dentro e lui dentro di sé preferiva non guardare. Ma quella volta era diverso. Quella musica usciva da sola, nota dopo nota. Quella musica era sua come mai niente altro era riuscito a essere. Nemmeno il nome che appariva sui manifesti: Chet Baker. Lui era Chesney Henry, ma nessuno lo aveva mai chiamato così. Suonava a occhi chiusi e si perdeva tra le onde olandesi, quelle romane e tra i campi dell’Oklahoma che ormai nemmeno sapeva più com’erano fatti. Ricordava però i suoni della sua infanzia, il blues ascoltato nelle catapecchie di campagna, quello che si mescolava di suoni italiani e di parlate nordiche che lo invadeva e lo scuoteva e lo distraeva finalmente da se stesso. Suonava e appuntava, risuonava e modificava lettere e palline. Poi si fermò. Guardò l’orizzonte pieno di progetti per il futuro. La sua mente vagò alla ricerca di un nome giusto, uno che suonasse bene tanto quanto suonava bene quello che era uscito dalla tromba. Scolò l’ultimo goccio di birra, scrisse Blues for a reason sul foglio.

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