Il viaggio di Francesco Faraci oltre la frontiera del Jova Beach Party
Il fotografo siciliano ha seguito il tour estivo di Jovanotti. Ora le sue foto sono state raccolte in un libro e al Foglio racconta: “Cosa mi ha incantato di questi tre mesi? I corpi”
Accanto al tour sulle sabbie di Jovanotti c'è stato quello del fotografo palermitano Francesco Faraci. L'ombra lunga di Lorenzo, il cacciatore degli infiniti istanti che hanno puntellato la carovana danzante. I suoi scatti sono finiti nel libro fotografico Jova Beach Party. Cronache da una nuova era, uscito il 22 ottobre (256 pp., 24,90 euro, Rizzoli). Lo incontriamo per sapere quello che le immagini hanno potuto soltanto suggerire, per farci raccontare la sua esperienza sul campo. Non da reporter di guerra, ma da testimone di “un due tre casino!”.
“Non sono mai stato in zone di guerra” esordisce Francesco, “ma hanno scritto che nelle mie fotografie c'è un sottofondo di tensione enorme, che può rievocare una battaglia. Silenziosa. Imminente. Sembra che io sia dove apparentemente non succedono le cose; un attimo prima o un attimo dopo. Lo trovo lusinghiero, ovvio”. Ho incrociato le foto di Francesco a ripetizione sui social e riconosco in tutte un'esplosione compressa. “Dove si resiste alla vita”, aggiunge rapido.
Cosa ci azzecca il tuo sguardo di fotografo, allora, con questo itinerante e ludico rito pop?
“L'idea era partire dal tour, con le dinamiche sotto il palco, le reazioni agli stimoli della musica, il viaggio in sé, e farlo diventare qualcosa che rimanga. Lorenzo è uno che innesca, e poi tu fai il tuo, quello che ti somiglia. Il Jova Beach è stato un pretesto, io ho fotografato la gente. Ho continuato a fare quello che ho sempre fatto”.
Quello che hai sempre fatto.
“Seguivo gli sbarchi dei migranti. Mi chiamava la capitaneria, e assistevo a tutto quello che stava intorno a queste discese. All'ennesimo sacco nero non ce l'ho fatta più. E mi sono dedicato alla mia terra. Avevo bisogno di fotografare la Sicilia, il sud, il Mediterraneo. Quello che mi apparteneva e mi chiamava. Finito poi in Malacarne, il mio primo libro”. Che ha vinto premi e gli ha dato visibilità.
“Aprivo le porte di casa e fotografavo quello che avevo sotto. Il mio quartiere, il mio quotidiano. I bambini un po' hot di Palermo. Ma anche gli adulti. Quelli detti Malacarne. Dei quali volevo far risuonare la vitalità, fuori da ogni giudizio morale. Oppure vagavo in questo deserto dei paesini in via di estinzione. Nelle strade che non portavano da nessuna parte. Nella terra nera. Luoghi che te li devi andare a cercare. Ed è diventato un po' il mio brand”. Tutto in bianco e nero. “I miei occhi vedevano così. Il bianco e nero va dritto al punto. Ma in questo lavoro ho deciso di mettermi in gioco e usare anche il colore”.
Non si può immaginare un viaggio più colorato di questa esplosione pop. “A dire il vero avevo già deciso prima, solo che dovevo capire com'era l'altra forma: il colore. Anche se l'istinto fa quello che deve fare, il colore costringe: devi rimettere al centro il mondo reale. Ho dovuto usare, o trovare, un altro me stesso”. Francesco ha nel suo curriculum anche un romanzo, Nella pelle sbagliata, uscito nel 2017, e in questo libro oltre alle foto torna qualche pezzo scritto.
Come se la fotografia non ti bastasse. “La fotografia non mi basta mai. Questi brevi passaggi scritti erano un bisogno. Un insieme di cronaca, dubbi, sensazioni, capriole emotive, che non puoi colpire con un clic. Uno di questi è maturato quando ho visitato la tomba di Pasolini, a Casarsa del Friuli. Mi ci sono seduto davanti. Un piccolo cimitero. Lui sepolto accanto alla madre. Le dieci di mattina, faceva un caldo pazzesco, ero l'unico, un silenzio tombale, quello vero. Eravamo io e lui. Sul marmo un melograno e due rose appassite. Ci sono stato quaranta minuti. Era una cosa che volevo fare da una vita. Recitavo in testa alcune frammenti delle sue poesie”
Ci concediamo qualche lunghissimo secondo di silenzio, poi la domanda d'obbligo. “Ho conosciuto prima Francesca, sua moglie (di Jovanotti ndr). Su Instagram ha visto le mie foto e abbiamo cominciato a scriverci, del più e del meno, quello che si fa tra amicizie social. Poi lei ha girato il contatto a Lorenzo, e nel maggio del 2018 quando è venuto in Sicilia mi ha invitato al suo concerto. Nel backstage mi ha chiesto di fare foto, che sono poi finite nel booklet dei concerti. Diceva che avevano un punto di vista diverso da quello a cui era abituato. E arriviamo a questo gennaio, quando alla presentazione del Jova Beach, mi chiede di scrivere un progetto, 'e vediamo se possiamo farlo'”. E tu non hai dovuto inventarti nulla. “Infatti. Ho proposto di fotografare l'Italia. Mi sono venuti in mente Comizi d'amore di Pasolini, appunto. E il libro Viaggio in Italia di Guido Piovene. Era un'opportunità clamorosa, fotografarne un pezzo oggi. Io sono un vagabondo e ho solo continuato a vagabondare. La formula era molto semplice: avevo un appuntamento fisso, per il resto era 'fai il cazzo che vuoi'”.
Le date dei concerti come i puntini da unire per arrivare al disegno finale. “E in questo disegno finale ci sono parecchie foto scattate a zonzo, in quell'Italia nascosta dove mi infilavo in quei due o tre giorni a cavallo tra un concerto e l'altro. Mollavo i miei accompagnatori ufficiali e prendevo bus e treni; ho fatto anche l'autostop”. Cosa ti ha incantato, cosa ti salta in mente al volo, di questi tre mesi? “I corpi. Un numero illimitato di tette e di culi, lo splendore, in molti casi; ma anche il rendersi conto di quanto siamo tutti una forma a sé. Lo so, sembra una cosa banale, scontata, ma accorgersene non lo è. E l'ossessione del corpo perfetto è una cazzata; cosa pretendi di imporre un'immagine unica del bello, un solo canone, quando poi ti accorgi che siamo tutti diversi, ma diversi di brutto? Imperfetti e ognuno a suo modo interessante, perché unico. Ho fatto un indigestione di corpi. Di ogni età, dagli otto anni ai sessanta, però la maggioranza erano donne”.
Qualche informazione da ufficio stampa. Il biglietto era unico, e chi arrivava prima meglio si appostava; alla fine però il luogo era ben circoscritto e si sentiva alla grande dappertutto. Si cominciava alle due di pomeriggio, c'erano tre palchi, una marea di ospiti, e di questi Francesco cita su tutti Bombino, chitarrista e cantautore nigeriano di etnia tuareg. Alle otto e mezza iniziava Jovanotti, metteva dischi, tornava dj, faceva ballare, poi attaccavano gli strumenti, ed erano i suoi pezzi, e ogni data diversa dall'altra. “Liberatorio, questo era lo scopo. La gente voleva sfogarsi, essere selvaggia. Spogliarsi delle inibizioni. Complice anche il fatto che eravamo tutti mezzi nudi. Non è un azzardo dire che sembrava di stare a Woodstock”.
Mi rendo conto che molti storceranno il naso: la carica rivoluzionaria di quei giorni in un oggi dopato dalle comodità e conformista. Ma Francesco era lì. Saliva e scendeva dal palco, entrava nel backstage, si infilava tra gli esagitati, che cantavano a squarciagola e ballavano senza freni. In molti casi usa la parola 'animalesco', soprattutto in alcune date del sud, come quella di Castel Volturno. “Ma un animalesco senza risse, incidenti di nessun tipo, solo bisogno di stare insieme. Nell'ultima data a Linate mi sono affacciato sul palco e non ho visto la fine della gente. Era un tappeto di luci e corpi che ondeggiavano”. È un'onda che va, è un'onda che viene e che va... Centomila persone stimate. E oltre alle spiagge c'è stata la data sull'altopiano di Planes de Corones, in Alto Adige, 2275 metri che dominano sulle Dolomiti. “L'unica data senza costume. Dalla pioggia al nevischio, un freddo cane. Mi sono ridotto uno straccio, perché nella mia ingenuità da siciliano mi ero equipaggiato male, molto male. Eppure lo trattengo come uno dei più emozionanti. La fortuna ha voluto che durante il concerto non piovesse, ma nel mio ricordo c'è una grande distesa di fango. Trentamila corpi immersi nel fango... L'altra data del cuore è stata Barletta. Perché la Puglia è la Puglia”.
Mi pare un po' pochino. “Chi sa sa. È un fatto di pelle. Con un amico siamo saliti e scesi per tutto il tacco. A Zapponeta lo stupore della macchina del tempo: sembra ferma agli anni '60”. Mi aggrappo a tutto questo entusiasmo, assimilato sul campo: ne voglio ancora. “Ho visto e sentito una gran voglia di futuro, totalmente fuori da logiche razziste e xenofobe, quelle che sembrano imperversare. In realtà c'è molto più cuore, molta più fratellanza di quella che immaginiamo. Fanno più clamore, e spavento gli oscuri, i rancorosi, quelli che secondo me torneranno dove sono sempre stati. Una forza velenosa sotterranea, che esplode nei social”. Poi Francesco sente il dovere di specificare: la sua si chiama speranza. Torniamo al motore principale: il tuo rapporto con Jovanotti, in quei giorni.
“Guarda, il giorno dopo non ci siamo mai incontrati. Ci si incrociava poco, ma era bello l'abbraccio di quando arrivava. Dava l'impressione di freschezza, col sorriso, era contento. Perché stava riuscendo ad andare avanti, nonostante tutto. Tra noi il rapporto è abbastanza fuori dalle dinamiche del lavoro: ci consigliamo libri, serie tv, un film. Ci spacciamo roba a vicenda. Se proprio vuoi un momento, in spiaggia, lui alla chitarra, ci siamo fatti una cantata, Redemption song di Marley”. Icona di un altro rito collettivo, liberatorio anche quello, a suo modo. Allo stadio di quello che fu San Siro: migliaia di accendini bic al posto degli smartphone. Era il 1980. Francesco sarebbe nato tre anni dopo.
Ma prima di chiudere va affrontato anche l'argomento ostico di questo tour: la lunga sequenza polemica ambientalista, per quello che veniva considerato un abuso, megalomane e dannoso. Cerco di estrapolare a Francesco le reazioni di Lorenzo, qualcosa che ce lo mostri depresso e incazzato nero, e non solo elettrico guru, ma lui è come immune, la sua sicilianità si stende in un quasi totale disinteresse per tutto quello che per lui è solo un rumore di fondo. “Sì, lo facevano soffrire, ma alla fine vinceva la voglia di andare avanti. Di non fermarsi. Da dentro era questo che si viveva: era stato messo in moto un esercito, si stava facendo qualcosa che non aveva tentato mai nessuno e Lorenzo non poteva permettersi di disperdere energie per convincere chi non si sarebbe mai convinto”. Percepisco che non è una piccola forma di omertà o devozione, ma estrema sincerità: per Francesco Faraci non c'era altro che la sua macchina fotografica, la sua curiosità per le persone, l'abbandonarsi al contagio di questa grande impresa. Tutto il resto era fuori dalla sua orbita, non era documento. “Lorenzo è come lo vedi, sui social, in tv: è esattamente così. Ha un carisma mostruoso e calmo. Ancora più potente perché non ha bisogno di essere autoritario”. Qualche perplessità, qualche fastidio, dai. “Devo deluderti ancora. Lui ti dice le cose senza mezzi termini. Non solo con me: io l'ho osservato, è limpido”. Limpido lo dice due volte. Perplessità e fastidi possono nascere solo dall'ambiguità, dalle omissioni. “È consapevole dei suoi mezzi” riprende Francesco, “eppure sempre pronto a mettersi a rischio. E poi un'energia inimmaginabile. Lo guardavo sul palco e dicevo: ma come cazzo fa? Non si risparmia mai. Poi capisci che è tutto uno scambio pazzesco, che il pubblico ti rimanda una vibrazione che smuove le montagne; ed è la cosa che sciocca più di tutte”. Ok, mi arrendo. Onore a chi si carica in spalla la montagna.