L'eroe è l'ultimo, gli dèi siamo noi che l'amiamo. Altro che Circe femminista
L’epica antica nuova di zecca di Kate Tempest, poetessa rapper
Roma. Gli eroi son tutti giovani e belli, ha cantato Guccini. E maschi, ha preso a sottolineare il revisionismo femminista, se è lecito chiamare così, e senza che nessuna si senta offesa, tutto il recente riscrivere epiche, genealogie, mitologie, saghe dalla parte delle donne, con gli occhi delle donne, alla riscoperta delle donne. Zeus era un sessista e Omero il suo profeta, dicunt, e allora tutto ciò che da mitologia ed epica classica è derivato (prìncipi, eroi, supereroi, maghetti) va spodestato, ribaltato, sostituito. Michela Murgia ha avuto da ridire su Harry Potter, e sulla subalternità di Hermione, all’interno di un più ampio ridire sull’eroe, che è sempre solo, e sempre maschio, e quindi oltre che il patriarcato, rintuzza pure il dispotismo. Leviamo il maschio e mettiamoci la donna è l’esercizio del decennio e l’editoria è la palestra che più lo pratica, e così negli ultimi mesi Madeleine Miller ha “restituito la parola a Circe, facendone un grande personaggio femminista” (parola del Monde), Pat Barker ha fatto la stessa cosa con Briseide (parola dell’Atlantic) e “Otto grandi autrici italiane di oggi hanno riscritto Ovidio: il mito dalla parte delle donne” (così la retrocopertina di “Le Nuove Eroidi” di Ciabatti, Raimo, Murgia, Valerio, Parrella, Bonvicini, Bernardini, Lattanzi). In sintesi, Penelope dice: “Caro Ulisse, stavolta parto io”. Qua nessuno fa il purista, figurarsi: siamo in pieno post ideologico, e destrutturare è meglio che curare.
Rielaboriamo matriciane e genealogie, imponiamo sensibilità, etiche, connotazioni del nostro tempo a un passato che non le conosceva, stravolgendolo. Siamo così, dolcemente imperialisti. I risultati a volte sono persino belli, divertenti, fantasiosi, ma interessanti no, mai. Non dicono niente. Niente di più del fatto che l’equiparazione maschio/femmina è diventata una partita a scacchi e che anziché sperimentare si preferisce rielaborare, anziché chiedere si preferisce rispondere. Sulla mitologia e sull’eroismo, invece, ci sarebbe da fare e porsi una questione non di genere ma d’essere e per fortuna ci ha pensato una poetessa, e che poetessa. Si chiama Kate Tempest, e su questo giornale l’abbiamo amata da subito, da quando e/o ha cominciato a portare in Italia i suoi “poemi scritti per esser letti a voce alta” (è l’avvertenza che sta all’inizio dei suoi libri). E’ una rapper trentaquattrenne (quindi millennial), londinese di Westminster, e il suo nuovo lavoro, “Antichi nuovi di zecca” ha in esergo un rigo di William Blake che dice: “Tutte le divinità dimorano nel petto umano”. Comincia così: “Nei tempi antichi i miti erano storie che usavamo per spiegare noi stessi. Ma come facciamo a spiegare come odiamo noi stessi, le cose in cui ci siamo trasformati, il modo in cui ci spacchiamo in due, il modo in cui ci complichiamo troppo?”. Dice Tempest che siamo ancora mitici, eroici, divini, per questo mostruosi. Ed è da qui che fa ripartire la sua epica antica ma nuova di zecca, per dire tutto quello che siamo diventati, vederlo, amarlo, perdonarlo, pregarlo, onorarlo, trovarne la necessità eroica, tragica, proprio come si faceva con gli dèi e con gli eroi. Abbiamo bisogno di ricordare che siamo “di più della somma di tutte le cose che possediamo”, di tornare a distinguere il bene dal male, di ripristinare la fiducia e non di sostituire i vecchi eroi, depotenziandoli, con le vecchie eroine, elevandole, ma di vederne e costruirne di nuovi.
Tempest ci invita a interessarci in senso fraterno al popolo, che lei intende come umanità tutta intera, come la Storia che siamo, non come massa subalterna. Indica i disperati, che siano barboni o borghesi annoiati, come eroi del nostro tempo, persino divinità, perché sono soli e smetteranno di esserlo, e diventeranno migliori soltanto se qualcuno saprà guardarli “con uno sguardo più umano e senza pretese”. Indica noi, tutti, come veneratori e venerati, uniti dalla mutualità del soccorso, della luce, della fede, dell’ammirazione. E’ qualcosa di molto diverso dalla retorica dell’antieroe, dall’epica della debolezza, dallo sciacallaggio sugli ultimi, né ha qualcosa a che fare con l’autoaiuto, l’autoamore, l’autostima. Tempest dice che per liberarci del rancore e della paura dobbiamo vederci divini e inginocchiarci davanti all’altro che affronta le cose di tutti i giorni “proprio come fa la gente di tutti i giorni”, perché siamo tutti sconsolati, soli, tristi, e ci sentiamo tutti abbandonati, non capiti, sviliti, ma preghiamo e ci sacrifichiamo per divinità sbagliate, che neanche riconosciamo come divinità, convinti come siamo che il sacro sia zavorra, menzogna consolatoria. Dobbiamo tornare ad amare gli esseri umani, perché ci salveremo tra esseri umani. A questo serve l’epica: a dar fede e fiducia, non pieni poteri. A questo serve lo sguardo delle donne: ad accorgersi di chi è stato lasciato solo, per correre a prenderlo, caricarselo addosso, e poi spingerlo nel mondo con la forza del salvatore, che ha soltanto chi è stato salvato.