Brunori sa tutto
“Cip!”, l’ultimo disco del cantautore, ex indie disincantato, è una festa dell’ottimismo, una stupenda previsione
Noi qui a preoccuparci di come saremo tra dieci anni, o venti, o cento, a chiederci se avremo il cancro al cervello e i pollici più lunghi per colpa dei cellulari, e se perderemo gli inverni e le morte stagioni per colpa del riscaldamento globale, e se mangeremo soltanto insetti, e se saremo più analfabeti, estremisti, sociopatici, pessimisti di adesso, e quanto di più. Noi qui a farci leggere la mano, le stelle, i sogni, per cercare di conoscere la data dell’apocalisse, certi che ci sarà, e arrivare preparati, allenati, pronti, e magari provare a metterci in salvo. E poi arriva Brunori Sas e dice che tra dieci anni, o venti, o cento, “chissà come saranno, quelli che arriveranno, e se avranno le stesse mie mani, se saranno più alieni o più umani, e se avranno le solite gambe, le solite braccia, le solite facce ma chiuso nel petto magari un cuore più grande”.
“Cip!” è un disco sulla leggerezza, sull’impossibilità di cambiare sempre tutte le cose, e su quant’è bello accettarle
Il futuro non è più quello di una volta, si sono detti e lasciati dire, per molti anni, i ragazzi all’italiana, giovani percepiti che Brunori Sas lo ascoltano da quando erano ragazzi all’europea, giovani reali. E Brunori Sas per primo, e prima di adesso, cioè prima di questo quinto disco così radioso e pacificato però non pacifista, credeva che fosse così, che il futuro si fosse rimpicciolito, intristito. Era un indie, Brunori, e dell’indie aveva tutto, il pubblico eletto, la chitarra amara, il curriculum pieno di scantinati. Tutto meno che lo scontento. Era come Luciano Violante: nemico pubblico della cultura del lamento. Denunciava, additava, talvolta predicava, però con una morbidezza che era un po’ poesia e un po’ pigrizia, e che lo distingueva dagli altri e segnalava, in lui, il cantautore disimpegnato ma concentrato, uno nel solco di Francesco De Gregori.
Quando, pochi anni fa che sembrano decenni, l’indie è uscito dagli scantinati ed è arrivato a Sanremo, in classifica, a X Factor, lui era già fuori, era già cantautore, ma a quel genere era ancora associato, e in fondo lo è pure adesso, perché l’indie ha smesso di identificare un’attitudine e ha preso a identificare una generazione, un tempo, una reazione. Fino all’ultimo disco, “A casa tutto bene” (2017), quando poteva, Brunori sentenziava e ci dava del tu per rimproverarci tutti. Così: “Ma l’hai capito che non serve a niente mostrarti sorridente agli occhi della gente?”, “Te ne sei accorto, sì, che non c’hai più le palle per rischiare di diventare quello che ti pare?”. Però, in quell’album c’era anche “Canzone contro la paura”, che era la rivendicazione di una distanza dall’indie e dal suo spleen, dalla rabbia, dall’oscurità, e pure dalla vanga che a volte ci aspettiamo che il cantautorato sia, ed era anche il manifesto programmatico di questo lavoro nuovo, e faceva così: “Scrivo canzoni poco intelligenti che le capisci subito non appena le senti, canzoni buone per andarci la domenica al mare, canzoni buone da mangiare, sono canzoni poco irriverenti, insomma canzoni come me, che ho perso tutti i denti”. Era il gennaio 2017, il mondo era fosco quanto adesso, forse soltanto non stremato dalle correzioni, dalle accuse, dalle gogne, dagli insulti, dagli hater, dalle disintossicazioni e rieducazioni coatte. I due anni trascorsi da allora sono stati esasperanti e niente s’è rischiarato ma quasi tutto s’è ancora più infoschito, e se prima il Sas, con una decisione che trasudava pudore, invitava alla leggerezza, oggi si spinge un passo in avanti e invita alla superficialità. Lo fa in un disco che si chiama “Cip!”, perché “Se tutti urlano, noi cinguettiamo!”.
Un cantico sull’inviolabile, e sulla responsabilità limitata che abbiamo nel compiersi del destino del mondo
Bel contrordine, a poche settimane dalle fine dei Terrible Ten, il decennio terribile che ha già mostrato di non essersi affatto estinto e che abbiamo trascorso a massacrare la complessità, l’evidenza logica, il buonsenso, il rispetto, la democrazia, l’ordine, e lo abbiamo fatto proprio su Twitter, il social che, quando nacque, era esattamente un posto dove cinguettare e dove tuttavia i cinguettii sono presto diventati ringhi, e da fringuelletti che si passavano informazioni, tutti noi ci siamo trasformati prima in pettirossi da combattimento e poi in leoni, fiere che azzannavano e dissezionavano tutto, senza sfamarsi mai. Quella semplificazione avvilente a cui temevamo che Twitter ci avrebbe portati, disabituandoci al dialogo, all’analisi, all’approfondimento, alla maturazione, è stata più grave di quanto avevamo preventivato. E mentre adesso è tutto un discutere di come richiamarci al contenimento della rabbia, dell’aggressività, del dittatore che è dentro di noi, dello zoo che ci portiamo dentro, e di come ricondurci alla ponderazione e alla profondità, di come riportarci in libreria e all’altare, all’unità, alla concordia, all’autoanalisi e perché no all’autoflagellazione (specie se si è maschi), Brunori Sas dice: “Superficiale a volte non è male, anzi a volte è così bello ridere del mio cervello”. Ridere di noi, di quello che pensiamo, proviamo, sentiamo: che bella rivoluzione sarebbe, in un paese e in un tempo in cui ci sentiamo tutti editorialisti in cerca dell’opinione definitiva anziché della destrutturazione, e abbiamo un’idea così gravosa delle emozioni, dei sentimenti, delle relazioni, e siamo così adolescenziali, irritabili, suscettibili, e pesanti. Ridere del nostro cervello significa anche smetterla di fidarsi della lettura in controluce che facciamo di tutto, del nostro ossessivo voler rintracciare le radici del male e del marcio. Un popolo che sappia ridere del proprio cervello è un popolo che, non appena cede al fervore del Crucifige contro un conduttore che scivola in una battuta goffa (Amadeus che dice: ho scelto questa valletta perché è bella e sa stare al posto suo, cioè alle mie spalle), si accorge che una battuta goffa non minaccia la condizione femminile, anche se il tentativo di crederlo è forte. Riusciremo mai a ridere degli indignatometri che ci siamo infilati al posto delle lenti da lettura?
Che pesanti che siamo diventati. Pesiamo tonnellate di seriosità a testa, e infatti travolgiamo tutto, anche il futuro, ritenendolo necessariamente un crollo, una proiezione di sconfitta, peggioramento, estinzione. Il futuro, invece, per il Brunori Sas alleggerito, è una possibilità migliore, una chance aperta, una tabula rasa sulla quale si può disegnare un uomo nuovo, più grande, più forte, più buono, più umano, tanto che gli alieni potrebbero essere nient’altro che questo, nuovi umani più umani.
Brunori è sempre stato il Luciano Violante dell’indie, il nemico pubblico del lamento. Ora s’è liberato dello spleen
Lo dice, BS, esplicitamente o implicitamente, in ogni canzone di questo disco che ha in copertina un pettirosso. Che è un animaletto interessante. Iconico, direbbero i noiosetti. Emily Dickinson scrisse che era il suo “criterio di melodia”. In certi posti, molti anni fa, il pettirosso era il criterio di aria pulita (il cielo in cui vola un pettirosso è pulito, sano), e in certi altri, per esempio la Romagna, segnalava l’arrivo della neve e la rifioritura, la rinascita successiva. Fabrizio De André cantava, in “Inverno”: “Anche la neve morirà domani, l’amore ancora ci passerà vicino”. E dall’amore, Brunori Sas, in questo lavoro che parla a un tempo che ama poco pur desiderandolo tanto, crede che non dipendano necessariamente gli sforzi migliori. “Se c’è davvero un confine tra il bene e il male, difendimi al di là dell’amore”, canta nello stesso pezzo in cui dice “Vedrai che andrà tutto bene, tu devi solo metterti a camminare, raggiungere la cima di montagne nuove, devi solo smetterla di gridare, e raccontare il mondo con parole nuove”.
Quante volte diciamo che l’amore è finito? E nessuno mai pensa che, se pure così fosse, potrebbe esserci qualcosa di nuovo e migliore a tenerci uniti, a spingerci gli uni verso gli altri, qualcosa al di là, qualcosa da inventare o scoprire, e che sarà alla portata degli esseri umani del futuro, che avranno un cuore più grande. Nessuno mai pensa che quando un palazzo crolla se ne può costruire un altro, più solido, più bello, migliore. E se, invece, al di là dell’amore ci fosse qualcosa di meno dell’amore? Sarebbe così terribile? Non abbiamo forse bisogno di decompressione, distensione, ridimensionamento? Non lo avremo sopravvalutato, l’amore? Difendimi, al di là dell’amore: non aspettare di amarmi per fare il mio bene, né per volermi, per cercarmi.
C’è una poesia di Wislawa Szymborska che fa così: “Devo molto a quelli che non amo. Il sollievo con cui accetto che siano più vicini a un altro. La gioia di non essere io il lupo dei loro agnelli. Mi sento in pace con loro, e in libertà con loro, e questo l’amore non può darlo, né riesce a toglierlo”. Sono versi in sintonia con la visione di Brunori Sas, che pure della centralità dell’amore è convinto, purché sia un amore leggero, progettuale, di tendenza e non di stomaco, di prossimità e non di fusione. Un amore nuovo, ancora da raccontare. Un erede dell’amore o un usurpatore del suo trono.
Il pettirosso in copertina è il simbolo della rinascita e della fiducia verso il futuro che vengono cantate ed evocate in ogni verso
Motta, cantautore indie con successo pop, qualche mese fa ha salutato le scene per un tempo che non ha indicato. Lo ha fatto per “cercare altre verità”. Ha chiuso il suo ultimo concerto cantando “Per te, che forse sei meglio di prima e un po’ ti conviene, per te che se ti chiamano ragazza, ti fa un po’ male il cuore, e questa notte, per l’ultima volta, lasciati andare, respira forte la nostra ultima canzone”. Motta ha poco più di trent’anni, Brunori Sas poco più di quaranta, condividono lo stesso pubblico, e la rabbiosa terra musicale di provenienza. Entrambi riportano una stanchezza per la gravosità, entrambi credono che non sia la fine dei sentimenti, ma l’inizio di altri, entrambi credono che ad aspettarci e appassionarci possano essere tinte pastello anziché nere, pic nic anziché banchetti, cip anziché tweet, balli anziché rituali. Per tutti e due, un mondo e un modo di leggerlo e affrontarlo sono tramontati. E c’è un’alba da guardare, di cui scrivere, di cui capire e misurare i raggi. “Bello appare il mondo agli occhi di Francesco, coi baci della nonna e il panino fresco, bello appare il mondo agli occhi di Lorenzo che col suo teletrasporto gira tutto l’universo bello dovrebbe apparire il mondo anche a te che invece sei sempre nervoso e non si sa perché”. Un po’ decrescista, ma non fa niente. Si perdona tutto ai cantautori, quando non dicono cosa dovremmo essere, bensì come potremmo essere.
In un’intervista su Vanity Fair, quando Malcom Pagani gli chiede cosa ci sia, di lui, in questo disco, BS risponde: “Molto del mio vivere in Calabria”. E cioè a San Fili, un paesino di tremila anime di quelli che la scrittrice calabrese Sonia Serazzi ha ben spiegato perché si fanno amare: “Sono un sud che ti lascia campare senza chiederti nulla” (da “Il cielo comincia dal basso”, Rubbettino ).
Il sud che ti lascia il privilegio di essere pigro, sentire la noia e usarla per contemplare, distanziarti, aspettare (“Se fossi cresciuto a Milano, probabilmente, non avrei fatto il musicista”, ha detto BS). Il sud che ti abbandona, e così ti permette di incontrare la solitudine, il solo spazio creativo che abbiamo davvero a disposizione, quello nel quale è possibile non dipendere dall’approvazione degli altri. Il sud che non si lascia cambiare da nessuno, né da chi vuole fargli bene né da chi vuole fargli male, e che in questo offre la sponda a una rassegnazione che, con intelligenza, Brunori tramuta in accettazione: “Non puoi fare l’amore se non smetti di urlare, se non smetti di farti ogni volta del male per le cose che non puoi cambiare: ma lasciale stare”. Siamo capaci, noi, di farci andare giù che non su tutto possiamo intervenire perché non tutto è emendabile? Sapremmo trovare l’autenticità delle cose nella resistenza che esse oppongono al progetto che abbiamo su di loro? Noi pensiamo alla realtà come a un grande investimento immobiliare, qualcosa di continuamente perfettibile, ingrandibile, assoggettabile ai nostri desideri, perché vogliamo darle la nostra forma, le nostre sembianze, ritenendole le migliori possibili. E invece la realtà ha anche il diritto di essere brutta, sgradevole, goffa, e di essere lasciata in pace così com’è. E’ anche un disco su questo, “Cip!”. Un cantico sulla responsabilità limitata che abbiamo nel compiersi del destino del mondo.
Smettiamola di sentirci protagonisti, e s’estinguerà il fumo dai nostri occhi perché s’estingueranno gli incendi, e vedremo meglio, nitidamente, che il mondo è rotondo. Un sasso rotondo, dice Brunori Sas. E chi mai ha cambiato un sasso? Lo puoi scagliare lontano, sotterrare, dissotterrare, persino spaccare, ma sempre un sasso, quel sasso, rimane. E allora tanto vale cinguettare, che è un cantare un po’ migliore, un musicare corde d’oro. Chi se lo sarebbe aspettato, da un quarantenne della generazione che ha perso prima ancora di cominciare, un cantico della rinascita, una luce così fiera di stagliarsi sulla superficie delle cose, che a volte è tutto ciò che c’è da guardare.