Eminem è finito così fuori moda, che potrebbe essere sul punto di tornare cool. Non adesso. Non con questo nuovo disco. Magari col prossimo. “Music to be Murdered By”, undicesimo titolo della sua produzione, verrà ricordato come un’uscita del periodo buio e dell’ispirazione stagnante. Poi si vedrà, se il proseguire della carriera di Em svolterà verso il new sunrise o il fade to gray. Una cosa va detta: quando a un minuto dall’inizio entra in scena il suo rapping, è ancora un sussulto. La voce di Slim Shady, il timbro dispettoso e nasale, il fiotto d’ansia che l’accompagna, l’immediata aria di guai, è un marchio indelebile nella storia di questa musica. Idem per la quantità di parole che mitragliano l’ascoltatore. Una pioggia di storie, personaggi, facce, destini, tutti iscritti alla corsa del topo nella parte sbagliata dell’America, di cui Eminem da subito s’è fatto cronista. La sensazione è che ormai per lui la questione tecnica/virtuosistica del rap abbia ricoperto la frustrazione provocata dai vuoti di effettiva intenzione e focalizzazione. Quantità per qualità: il numero di parole pronunciate e gli sbalorditivi tricks con cui flette l’ugola esplodendo gragnuole di vocaboli, sono il primo impatto con questo lavoro – che si rivelerà un ascolto non agevole, di un Eminem non placato. Lui intanto s’è vestito da undertaker, da becchino, sulla copertina rosso sangue di questo disco traboccante di 22 tracce, quasi tutte in area di dissing, di sputtanamento di vicende mal digerite. In “Premonition” il bersaglio sono coloro che lo criticano per i toni acidi delle sue canzoni. Dal secondo pezzo, poi, comincia la sfilata degli ospiti che popolano l’album, tutti giovani adepti arrivati intanto al successo per conto loro: Young M.A, il grande Anderson .Paak, Royce Da 5’9”, KXNG Crooked, Juice WRLD (già passato a miglior vita per un attacco epilettico a 21 anni). Qui, a dispetto che le collaborazioni prendano forma su pezzi dallo svolgimento musicale il più delle volte piatto, arriva un effetto interessante di “Music to be Murdered By”: il confronto tra il 47enne reduce della caduta di Detroit (nel frattempo decentemente risorta) e la nuova generazione d’interpreti rap. Salta agli occhi una differenza di registro che racconta di un’evoluzione culturale e attitudinale: per Eminem il rap è ancora teatro, messinscena, esposizione del talento, fino al punto da strumentalizzare il discorso, sommergendolo con trovate linguistiche. Per i suoi rilassati eredi, il rap sembra essere naturalezza, linguaggio assunto, espressione primaria. Flusso, appunto. Dunque flusso agli steroidi (Em), contro flusso come appartenenza. La lezione è che il tempo passa, le cose cambiano, e Marshall Mathers, a dispetto del disagio perenne, è un classico accertato, il memento di un suono, ma anche il suo passato, non fosse che non sa stare fuori dall’arena, perché sennò si sente morire.
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