Il coronavirus è un default da cui ripartire. Parla Stefano Mainetti
"Quello che mi manca è il sapere di poter uscire in qualsiasi momento. Il desiderio di libertà, quando c’è, uno lo dà per scontato", dice il compositore e direttore d'orchestra
Roma. Martedì, il quarto da quando è iniziata questa quarantena. Componiamo il numero, lasciamo squillare fino a quando non risponde una voce gentile da lontano. “Mi scusi, può richiamare domani?”. Salutiamo, torniamo ad altro e il giorno dopo richiamiamo. Ha il vivavoce attivato. “Mica le dispiace, vero?”, ci fa, per poi spiegarci: “Bisogna prendere il lato positivo di questo lockdown, dobbiamo riscoprire le cose semplici. Ieri, per esempio, quando mi ha chiamato, ero ai fornelli. In casa, adesso, è quello il mio compito e mi diverte molto cucinare”. A questa pandemia sta reagendo così il compositore e direttore d'orchestra di fama internazionale Stefano Mainetti anche se – come spiega al Foglio – nel suo caso non è cambiato poi molto. “In casa siamo in quattro e abbiamo un’armonia interna abbastanza collaudata. La convivenza coatta e forzata ha dei suoi limiti, ma è ovvio che ci sia spazio anche per la barzelletta che ci porta a dire che non ci si sopporta più e frasi simili. Ieri, ad esempio, a colazione, ho visto le tre donne della mia famiglia (la moglie, l’attrice Elena Sofia Ricci, la figlia di lei, Emma, e la più piccola avuta insieme, Maria, ndr) e mi è venuto da dire: “Ancora voi? Sempre le stesse facce? Ancora qui?”. “Ironia a parte, chi fa il mio lavoro, normalmente vive davanti a una partitura, si è abituati, e io non ho difficoltà a stare per dodici ore di seguito insieme alla mia musica. Quello che mi manca è il sapere di poter uscire in qualsiasi momento. Il desiderio di libertà, quando c’è, uno lo dà per scontato”.
Mainetti, allievo di Giorgio Caproni, uno dei maggiori poeti italiani del ‘900, insegna anche Composizione per musica da film al Conservatorio di Santa Cecilia e lì – dice – è continuata la docenza per via telematica, utilizzando varie piattaforme, dai messaggi a Skype e quant’altro. Il tutto porta via molto tempo, perché al di là della gestione fine a sé stessa, c’è tutta la parte digitale per creare collegamenti, file, WhatsApp e quant’altro. Con i ragazzi del mio corso – aggiunge - si riesce a lavorare abbastanza bene a distanza, perché comunque lavoriamo su partiture e su filmati. Per chi deve fare le lezioni di strumento, è invece più complicato come chi, per lavoro, deve uscire quotidianamente ed ha purtroppo dovuto limitare o chiudere la propria attività. È a queste persone che va il mio pensiero e la mia solidarietà. Credo che una volta finita questa pandemia, ciò che resterà sarà il problema economico, ma voglio essere ottimista. Sono sicuro che riusciremo a reagire velocemente e a ripartire con un’energia rinnovata. È tipico di noi italiani che in situazioni di grande difficoltà abbiamo sempre dato il meglio”.
Nel suo instant book “Nel contagio”(Einaudi), lo scrittore Paolo Giordano scrive che ha paura “dell’azzeramento e del suo contrario” e cioè che “la paura passi invano senza lasciare dietro un cambiamento”. Mainetti – che è anche uno dei fondatori dell’Associazione Compositori Musica per Film (ACMF) – interpreta questo periodo come una sorta di default. “Molte cose le abbiamo date per scontate – ci dice – e se questa esperienza può darci qualcosa di buono, è sicuramente il farci riflettere che eravamo arrivati ad un momento in cui tutto era assolutamente dovuto, scontato e saturo. Che la libertà di cui le parlavo prima fosse un bene prezioso, lo avevano capito già i nostri nonni e i nostri padri. Mi viene da pensare al mio che fece la Campagna in Africa. Le generazioni degli anni '50 e '60 erano generazioni felici e pieni di aspettative, con una voglia di vivere e di costruire che oggi francamente non vedo. Quell’entusiasmo si è un po’ perduto. Se c’è qualcosa di buono in questa pandemia, al di là dell’aspetto drammatico, è che può portare un momento di riflessione, un default da cui ripartire e poterci far apprezzare il più presto possibile la libertà che non è qualcosa di dovuto e di scontato, ma un qualcosa che ci siamo conquistati e che dobbiamo apprezzare come non abbiamo più fatto negli ultimi tempi”. Darsi appuntamento sui balconi o alle finestre per un flash mob, a uno come lui – che ha scritto musica di vario genere, compresa quella per il film Zombie 3 e per Papa Wojtyla (chi scrive ricorda con una certa emozione l’Alma Mater alla Westminster Cathedral di Londra, ma a telefono non glielo diciamo, ndr) – non interessa. “Mi sono limitato ad affacciarmi in terrazzo per prendere una boccata d’aria, lo faccio ogni tanto. In ogni caso, non li contesto, li hanno apprezzati anche tanti artisti nel mondo”. La musica può aiutarci, di questo non ha alcun dubbio. “È un nostro elemento caratterizzante, è una forma di comunicazione straordinaria che ha lo stesso valore della letteratura. In questo momento soprattutto può unirci, perché può essere una carezza per l’anima. Una buona lettura e un buon ascolto possono farci riflettere e pensare che forse si può avere un approccio più maturo nei confronti della musica anche un po’ più seria, e non solo nei confronti di quella usa e getta, tipo quella che ascolta mia figlia che ha quindici anni, ma lei, proprio perché ha quell’età, è perdonata”. Mainetti non è sui social e quindi non fa dirette Instagram, si informa di continuo, cerca di metabolizzare l’accaduto e di trasformarlo in note, pensa a questo periodo. “Bisogna essere consapevoli che siamo consapevoli della storia”, conclude prima di salutarci. “Non bisogna lasciarsi scivolare addosso il significato né il dolore di quello che sta succedendo”. La prima cosa che vorrà fare una volta che tutto questo sarà, si spera, finito? “Tornare a lavorare con i miei studenti in Conservatorio, perché il rapporto umano è insostituibile. Per il resto, spero di poter vedere la gente sorridere più di prima”. Torneremo, quindi, ad abbracciarci? “Lo spero e con maggior forza”.