Addio Bill Whiters, voce del soul e dell'America che lotta contro la pandemia
Aveva 81 anni. Tra le sue canzoni più famose “Ain’t No Sunshine”, “Lovely Day” e “Lean On Me” che, in questi giorni, è diventato uno di quegli inni collettivi coi quali ci si dà coraggio a vicenda
Proprio in questi giorni uno dei suoi hit più amati, “Lean On Me”, che si traduce “appoggiati a me”, è diventata uno di quegli inni collettivi coi quali, in tempi di tregenda, ci si dà coraggio a vicenda. Per una malattia di cuore non connessa con l’epidemia in corso passato a miglior vita Bill Withers, 81 anni, gloria della soul music, autentico hit-maker durante gli anni Settanta.
Proprio quella canzone oggi riscoperta dall’America travolta dall’epidemia, Bill l’aveva concepita rievocando gli anni difficili della sua vita, cresciuto a Stab Fork, disgraziata cittadina mineraria del West Virginia, uno degli Stati più poveri dell’Unione, dov’era appunto uso comune, nei momenti difficili, aiutarsi in tutti i modi tra vicini di casa, nel sano spirito congregativo americano. “Era un uomo solitario, con un grande cuore che lo teneva legato al mondo” hanno scritto i suoi nel dare l’annuncio della scomparsa di Bill, “parlava alla gente con onestà ed era capace di unirla”.
Riconosciuto come uno dei padri consacrati della soul music del Novecento, Withers ha chiuso prematuramente la carriera già nel 1985, scivolando a far parte di quel repertorio classico della black music a cui avrebbe attinto, e nel quale avrebbe cercato ispirazione un’infinità di artisti delle successive onde del R&B e dell’hip hop. Un pezzo come “Ain’t No Sunshine”, così ispirata alla gospel music e più in genere alla musica religiosa afroamericana appartiene di diritto al supremo american songbook, come quella “Lovely Day” celebre per la famosa nota finale tenuta dalla voce di Withers per 18 interminabili secondi, o la citata “Lean On Me”, che non solo Barack Obama, ma anche Bill Clinton vollero venisse suonata alle rispettive celebrazioni per l’inaugurazione dei loro mandati presidenziali.
Tre Grammys Awards e l’ammissione nel 2015 alla Rock and Roll Hall of Fame completano il pedigree di un artista che nella migliore tradizione arrivò al successo al termine di un percorso tormentato: nove anni di servizio in Marina, il trasferimento in California a cercar fortuna, un lavoro in una fabbrica di tavolette per i cessi, mentre di notte coltivava il sogno musicale. Fu la sua vellutata voce baritonale a portarlo in alto, fino al debutto discografico nel ’71, sostenuto produttivamente da una vecchia volpe come Booker-T Jones. Negli anni Settanta la sua carriera decolla, approdando a una grande etichetta come la Columbia Records e sfornando successi a ripetizione, sebbene i suoi rapporti col mondo della discografia resteranno sempre difficili. “Prima non mi pagavano” racconterà in un’intervista molti anni dopo, e lui per ripicca arriva a cancellare i nastri di un intero nuovo album, o si rifiuta di incidere per sette anni di fila al culmine della fama. Il documentario del 2009 che racconta la sua storia, “Still Bill”, lo ritrae però come un uomo appagato e ormai del tutto disinteressato alle dinamiche di uno show business al quale si sente estraneo. I suoi veri legami restavano con posti e con gente di tutt’altro tipo, come quel posto dimenticato da Dio, dov’era nato, dove la gente fatica a tirare avanti, ma non smette di sentirsi coesa. Gli avrebbe fatto piacere, nell’America in sofferenza di queste ore, sentir risuonare la sua “Lean on Me”, intonata da infermieri e da sbarbatelli, come un grande messaggio di incoraggiamento e di empatia.
Universalismo individualistico