Il canto della quarantena
Il nuovo album di Fiona Apple è un inno all’isolamento e al fare da soli. Anche i capolavori
Negli ultimi otto anni, Fiona Apple è andata a letto molto presto, è uscita molto poco, quasi soltanto per portare fuori Mercy, il suo cane, e ha scritto un disco, “Fetch the Bolt Cutters”, il suo quinto, che ha prodotto interamente in casa, per larga parte da sola, suonando di tutto, serbatoi dismessi, elastici, scatole, ossa del suo pitbull morto molti anni fa. E’ un disco che parla di tante cose e le dimostra, le inscena, le fa suonare tutte, una alla volta e in certi punti tutte insieme. E’ un disco sul potere della mente, e sul suo mezzo più importante, l’unico realmente imprescindibile, la libertà. Cosa riusciamo a fare con il pensiero, quando è libero dall’accondiscendenza verso gli altri e dal terrore di rimanere soli, è il punto che sottostà a tutto quello che Apple racconta a proposito della rabbia, dell’isolamento, della solitudine, delle donne, della depressione, delle ombre. Nel disco precedente, “The Idler Wheel”, che era uscito nel 2012, Apple cantava: “How can I ask anyone to love me when all I do is beg to be left alone”, come posso chiedere a qualcuno di amarmi se tutto quello che faccio è implorare d’essere lasciata sola. Otto anni di autoesilio dopo, apre il nuovo album con un pezzo in cui chiede d’essere amata, che s’intitola “I Want You to Love Me”, voglio che mi ami, e che inizialmente parlava di un uomo preciso, il suo Jonathan Ames, e poi è diventato qualcosa di più, l’intuizione di un desiderio, l’essere amata per ciò che si è e non per ciò che si dà, e il volerlo reclamare come diritto se anche si è insoddisfacenti, indivisibili, monologanti, autosufficienti, radicali. “L’arte della sensibilità radicale di Fiona Apple” è il titolo del ritratto che le ha dedicato il New Yorker, a marzo di quest’anno, un mese prima che uscisse il disco, e che Emily Nussbaum ha scritto andando a trovarla per mesi nella sua casa di Venice Beach, a Los Angeles, a due passi dalla spiaggia dove, un pomeriggio del 1965, Jim Morrison cantò “Moonlight Drive”, una canzone sul rischio, l’ignoto, il desiderio, lo sconfinamento, e Ray Manzarek lo convinse a fare una band e così nacquero i Doors. Qualche anno più tardi, non lontano da lì, guardando lo stesso mare, Brian Wilson scrisse “‘Til I Die”, la più grande canzone su com’è profondo il mare dopo “Com’è profondo il mare”, sull’uomo che si scopre infinitesimale e si ritrae e, immediatamente dopo, nauseato dal successo, dalla California, dall’industria discografica, si chiuse in casa per anni e li trascorse a dormire, piangere, bere, drogarsi, fumare, mangiare cocktail di gamberi, guardare Flipper, tenere i piedi nella sabbia per ricordarsi il mare. Per poco non ci restò secco. Si perse, senza più ritrovarsi del tutto.
Con “Fetch the Bolt Cutters” ha trovato l’equilibrio tra il sentirsi invincibili, immuni, volanti, e il sapersi ininfluenti, trascurabili. “On I Go” parla di confini, dei propri, e l’isolamento anche a questo è servito: a segnare la sua area, spaziarci dentro, farsela bastare
Fiona Apple, che s’è persa anche lei, quando ancora non viveva appartata e intorno aveva New York, la sua città, e non la California con l’eco del surf, degli acidi, del sogno americano, con “Fetch the Bolt Cutters”, sta tra “Moonlight Drive” e “‘Til i Die”, ha trovato l’equilibrio tra il sentirsi invincibili, immuni, volanti, e il sapersi ininfluenti, trascurabili, poco più che insetti. Il mondo visto da lì, da quel punto d’equilibrio, è un insieme di eventi sui quali Fiona Apple non ha alcun interesse a esercitare alcun controllo, né le preme rintracciarne il significato, correggerne il tiro, smascherarne la verità. S’arrende al naturale svolgersi degli eventi, senza tentare di interferire, o di cavalcarli. La prima canzone che ha scritto di questo disco, “On I Go”, l’ha cantata in un registratore, mentre camminava per il Topanga Canyon, non lontano da casa, e ripete spesso “But now I only move to move”, adesso vado per andare. Emily Neussbaum ha scritto che tutte le volte che ha chiesto ad Apple come nascano le sue melodie, lei le ha risposto di non saperglielo spiegare, di non avere il linguaggio giusto per farlo; si è scusata. A proposito dei testi, invece, Apple parla di serendipity e di parole che usa per il piacere che le arreca il semplice pronunciarle – vale per molti artisti, moltissimi cantautori, e per questo non ha senso farne l’esegesi; le canzoni sono fatti pratici.
“I only move to move” significa anche questo: la prendo come viene, la prendo come va. E’ un modo per affrancarsi dalla realtà e, insieme, lasciare che sia. Lo si può fare staccandosene, smarrendo il ritmo mondano e appropriandosi del proprio. Quello che avremmo dovuto fare in questa quarantena e che invece non abbiamo fatto, presi com’eravamo dal garantire al prima e al dopo una continuità, a non spezzare le nostre vite in due, a convincerci che quello che stiamo vivendo sia un semplice trasloco e non un passaggio, noi che di passaggio siamo eppure ci sentiamo decisivi. “On I Go” è anche una canzone che parla di confini, dei propri, e l’isolamento anche a questo è servito, a Fiona Apple, a segnare la sua area, spaziarci dentro, farsela bastare. Come si può scrivere un disco d’aria, al chiuso di una casa che corrisponde a una stanza? Un disco sorprendente perché pieno di colpi di scena, di suoni assolutamente non domestici e del tutto selvaggi, di parole che a un certo punto non bastano e allora diventano grida, sussurri, rumori della gola, spasmi, versi, di trovate artigianali. Nel primo brano, quello che comincia col suono di un incantesimo e finisce con un’orchestra guidata da un’indemoniata che miagola, la rumorista è la modella e attrice (ed ex fidanzata storica di St. Vincent) Cara Delevingne, grande amica di Fiona – Cara, ciao, ti va di partecipare al mio disco miagolando sul finire della prima canzone?).
Come ha fatto, Fiona Apple? Come mai non le si è rinsecchita la fantasia, in casa tutti questi anni, non è sfiorita, non si è incattivita, insuperbita, impoverita, e tutte le altre decine di cose che noi mondani incalliti, misuratori didascalici della vita, assertori convinti dell’ispirazione perché non abbiamo la pazienza dell’osservazione, diciamo ora che ci stanno succedendo a non uscire, toccarci, abbracciarci, baciarci, addossarci, scontrarci? E’ un’asceta, Fiona Apple? E’ una misantropa? E’ una snob? E’ stanca di noi? No, anche se è stata alcune di queste cose. Quando esordì, con “Tidal”, nel 1996, a diciannove anni, il pubblico e le case discografiche mordevano dalle stesse fauci, il suicidio di Kurt Cobain, due anni prima, non le aveva minimamente toccate, e lei salì sul palco dell’Mtv Video Music Awards dicendo che le facevano tutti schifo. La massacrarono. Lo fecero sempre, con lei, che era troppo giovane, troppo brava, ragazzina, bambolina, magrolina, un disturbo. Pur di non ascoltare la requisitoria contro ignoti, cioè contro tutti, che aveva incarnato nel video di “Criminal”, dove era troppo piccola per essere tanto sexy, lo scandalismo statunitense la accusò d’essere heroin chic, d’invogliare alla consunzione con la sua bellezza dolorosa, e vitrea, e la sua magrezza insalubre, e quell’incarnare così spudoratamente la tossicità. E dire che nel video c’erano solo rimandi molto erotici, molti letti, lenzuola, piedi in faccia, vasche, pantaloni slacciati, ma neppure una sigaretta. Erano obiezioni di un paese che non era ancora stato disintegrato dal sexgate di Bill Clinton, né era ancora arrivata Britney Spears a condonare tutto. Accusarono di svendita proprio lei che aveva raccontato, una delle prime artiste della storia recente a farlo, d’essere stata violentata, e immaginate lo scandalo, il pregiudizio, e ancora il disturbo, ché vent’anni fa non era il 2018, l’idea che la violenza sessuale fosse un reato contro la persona e che la colpa fosse interamente di chi lo commetteva non erano per niente radicate, e alle vittime non solo non si credeva, ma si affibbiavano sospetti. Quello stupro, oggi, per Fiona Apple è una ragione di rabbia come diverse altre, una ragione per tenere il conto aperto, per scrivere una canzone su Brett Kavanaugh – “For Her” – in un disco distanziato ma bruciante, esterno ma non straniero. Catartico, ha scritto qualcuno. Il disco di una donna di quarant’anni che non intende ingoiare niente, che vuole dire tutto, non per liberarsene, ma perché desidera farlo. Per noi vivere è incontrarsi, per Fiona Apple vivere è intuirsi. Ha anche lei fame degli altri, e del loro amore, ma non è disposta, per averlo, a rinunciare alla sua solitudine, che le serve per proteggersi, mantenersi integra, nuova, incontaminata, diversa, unica. Ha scritto l’Atlantic che per sopravvivere all’isolamento è necessario accettarlo come esperienza non condivisibile. Questo ha fatto Fiona Apple, senza per questo mortificare il desiderio, la fame. Gli altri sono inibitori, a volte inquinanti, quasi sempre violenti, e lo sono il più delle volte senza consapevolezza. Per rimanere lucida, Fiona Apple ha messo uno spazio tra lei e noi, e non per timore di giudizio, di crudeltà, di accanimento, di semplificazione: ha voluto tenersi ritirata per non subire alcuna influenza dal mondo esterno.
L’ordinarietà è un contagio, ci si omologa senza rendersene conto, se non dopo molti anni, quando si scopre per caso di sentirsi manchevoli in tutto e però ci si ritrova del tutto incapaci di esprimere un desiderio.
“Fetch the Bolt Cutters”, prendimi le cesoie, dice Gillian Anderson in una puntata della serie tv “The Fall”: deve liberare una donna che è stata violentata e chiusa in una stanza con il lucchetto. Le cesoie di questo disco servono a spezzare catene, spalancare porte, dire e far dire, ma soprattutto servono a scardinare coazioni, obblighi, timori, pudori. Non che prima Fiona Apple edulcorasse o si trattenesse, ma c’erano cose che non vedeva, che non era in grado di nominare, e che ha scoperto nella distanza, nella solitudine. Ha scritto Paola de Angelis sul Manifesto: “Apple a liberarsi ci pensa da sola e dopo aver spezzato le catene che in quarantatré anni di vita l’hanno tenuta imprigionata, corre su per la collina. Da lassù, comincia a parlare”. Ma così sembra che prima qualcosa la trattenesse, la soggiogasse o intimorisse, ed è inesatto, perché Fiona Apple ha sempre e soltanto aspettato che quello che non era pronta per dire, perché non lo sapeva dire, trovasse una forma adatta per venire fuori. In questo senso, questo è anche un disco sull’avere più di quarant’anni, su come il tempo ci rafforzi, ci indaghi, ci informi, se soltanto abbiamo la pazienza di farlo lavorare, e se sappiamo star zitti quando ci parla.
Gli Stati Uniti hanno accolto il suo disco come qualcosa di epocale, lei si è limitata a rilasciarlo sulle piattaforme virtuali. Il disco di una donna di quarant’anni che non intende ingoiare niente. Vuole dire tutto, non per liberarsene, ma perché lo vuole
Gli Stati Uniti hanno accolto il disco come qualcosa di epocale, Fiona Apple si è limitata a rilasciarlo sulle piattaforme virtuali, non farà alcuna promozione, se e quando potrà salire su un palco non è detto che decida di farlo (il suo ultimo tour, nel 2012, lo annullò perché il suo cane stava per morire, e sapeva che non sarebbe tornata a suonare a lungo).
Non si mercanteggia con Fiona Apple. Le sue decisioni sono irrevocabili, assolute, mai cerchiobottiste. L’anno scorso, quando al cinema diedero un film nella cui colonna sonora c’è una sua canzone, non andò mai a vederlo. Quest’anno, poco prima che il disco uscisse, si è detta felice per il lavoro ma terrorizzata all’idea di doverlo promuovere uscendo di casa, lei che “Kick me under the table all you want, I won’t shut up, I want shut up”, lei che pure ci vuole tutti (specie tutte) fuori, sopra i tavolini e non sotto, ma sa che “You’re a human, and You’ve got to lie: You’re a man”.
Fiona Apple ha lavorato al suono di questo disco più che a tutto il resto, ed è un suono guerresco, terreno, ctonio, rabbioso ma festoso, esaltante. Non dice più che sta per morire, come quando era piccola e però sentiva l’evanescenza della sua generazione (la gen X, quella che Douglas Coupland aveva raccontato perfettamente nel suo “Generazione X” e che oggi occupa uno spazio incolore tra i millennial e i boomer, e non sa nemmeno riconoscersi). Vuole vivere perché finalmente sa come farlo, sa cosa vuole e cosa no, questo è anche il disco di cosa significa essere maturi, di come il peso degli anni sia una bussola e non una pietra, questo è il disco della radicalità delle scelte che si fanno per non sprecare i giorni in cose che non si vogliono fare, è il disco sul lusso del no, è il disco che trasforma i traumi in effetti, spesso speciali. Il disco dell’orgoglio dell’isolamento, di come si diventa fantasiosi, rimanendo appartati, e di come la solitudine mostri le cose per quelle che sono, in una lucente interezza che a Apple fa venir voglia di assumere su di sé e le fa dire: voglio usare soltanto colori primari, e niente mezze misure.
Fiona Apple ha venduto milioni di copie, in una carriera povera di incontri, live, interviste, concessioni al pubblico, che l’ha amata abbastanza da difenderla quando la Sony, nel 2004, non volle pubblicarle un disco (era “Extraordinary Machine”) che riteneva troppo poco commerciale, e l’ha amata anche se lei è stata assente per alcolismo, per droga, per deconcentrazione, depressione, dispetto, odio: sapeva che si sarebbe ritrovata. E così è stato. Senza l’aiuto di nessuno. Ha fatto da sé. Da arrabbiata, è diventata rabbiosa, immune alla delusione. Per questo fa tanto rumore, un rumore che ci conviene, e fa luce.