Il “bellissimo” Little Richard
È morto uno dei padri del rock 'n' roll. Per raccontarlo non c'è niente di meglio che rivedere una puntata del Dick Cavett Show mandata in onda il 17 febbraio 1970
È morto Little Richard. Come raccontarlo? Cercate online una puntata del Dick Cavett Show mandata in onda il 17 febbraio 1970. Dati i tempi in cui viviamo, qualcuno potrebbe oggi accusare Cavett di aver all'epoca fatto di tutto per ridicolizzare, dalla sua posizione privilegiata di maschio bianco, un uomo di colore. Non è così. I dodici minuti scarsi del suo show sono invece un ottimo viatico per comprendere la grandezza di questa star del rock 'n' roll.
Uomo di spettacolo, Little Richard rintuzza ogni domanda di Cavett. I tempi scenici sono così perfetti tanto che viene il dubbio che ogni cosa, ogni gesto, ogni momento fosse programmato. Dopo aver interpretato Lucille e Lawdy Miss Clawdy urlando, scatenandosi prima al pianoforte e poi danzando con un microfono nel mezzo della scena, Little Richard siede ora a fianco di Dick Cavett, vicino alla star del football americano Jim Brown. Indossa un abito sgargiante verde smeraldo sfrangiato sulle maniche. Il basso profilo non gli si addice. Sfiora, benedice il ginocchio del campione di football con un buffetto. Brown si tocca a sua volta il ginocchio, come se volesse trattenere tutta quell'energia appena vista sulla scena. Risate del pubblico.
La chiamo “Mister Richard”, apre le danze Cavett, o devo chiamarla “Little”? Lui guarda distratto verso il pubblico, gli risponde “Little Richard”. Cavett lo incalza: gli amici la chiamano “Little Dick”? E lui, con olimpica nonchalanche: Oh no, mi chiamano il “Magnifico Little Richard”. Sembra di stare su un ring. Qual è il modo migliore per sfuggire dalle corde? Spostarsi in maniera fulminea, replicare giocando sui paradossi, ingigantendo le eccentricità, in pratica annichilendo il presentatore, facendolo diventare solo uno sparring partner. Cavett gli chiede se si consideri davvero la cosa più bella mai apparsa nello show business, e lui, improvvisamente serio, gli dice di bazzicare questo business da vent'anni e di essere l'uomo più bello sulla scena: “Senza alcun dubbio. Sono davvero bellissimo... Non lo dico per presunzione, ma perché ne sono convinto”, conclude, lasciando Cavett a bocca aperta. Non fa in tempo a terminare la frase che è già lì a incalzare il presentatore. Potrebbe permettergli di dire una cosa? Se ne esce con un'iperbolica presentazione di se stesso. Declama: “Ecco qua il bellissimo Little Richard da Macon, Georgia. Io SONO il Liberace abbronzato ('The Bronze Liberace')... Statevene zitti!” Non era quello il termine che il Cav. – grande uomo di spettacolo – aveva utilizzato per descrivere il presidente Obama? Beh, qui un uomo di colore se lo dice da solo che è “abbronzato”. Sa come prendere le misure al razzismo. Lo affronta di petto, facendo suoi i termini dispregiativi che si usano per denigrare i neri.
Liberace significa glamour, show business, musica classica immersa nel kitsch più sfrontato, tra pianoforti e candelabri a Las Vegas. Little Richard è la risposta selvaggia a tutta questa paccottiglia. È una specie di Dio del soul, una pantera nera del rock 'n' roll. Un inarrestabile entertainer. Quando Dick Cavett riemerge dagli applausi, tenta di spiazzarlo con un colpo imprevedibile: “Coltiva qualche hobby?”, lo canzona, come se si trovasse davanti a un tipo stravagante. La risposta di Little Richard è un capolavoro di understatement. Ridacchia al microfono: “Sì. Il mio hobby è la mia bellezza”. Come replicare? Mentre Cavett è a tappeto e subisce la prima conta fino a dieci, lui divaga sul matrimonio di Tiny Tim. Cavett torna in sé, gli chiede quale sia la sua filosofia. Si interrompe, lo attacca, va sul personale, gli domanda se quella specie di turbante tricologico che indossa sia un parrucchino. No, risponde Little Richard. “È roba mia, l'ho comprata”.
Ma insomma è sua o l'ha comprata? Visto che da lì la strada è sbarrata, Cavett riprova con la filosofia. Qual è la sua filosofia, a parte auto-incensarsi? Non l'avesse mai fatto. Parte un gigantesco panegirico. Ha fatto esordire i Beatles. Tenuto a battesimo Jimi Hendrix, Tom Jones. Ha ispirato molti entertainer ad entrare nel business: James Brown (che, come lui e Otis Redding, è nato a Macon). I Creedence Clearwater Revival interpretano pezzi suoi. Ha venduto sessanta milioni di dischi ed è qui per promuovere le sue date al Madison Square Garden.
Finisce in un crescendo. Little Richard si prende tutta la scena percorrendo lo studio di corsa, sfuggendo alle telecamere, sparendo sulle gradinate, tra il pubblico, disegnando una U e ritornando al suo posto urlando, mentre la band tiene il ritmo. “Ho sempre voluto farlo in televisione”, si giustifica. Poco prima, davanti all'ennesima stoccata di Cavett (“Si offende se le chiedo se sul suo viso applica cosmetici?”) aveva risposto: “No, non mi offendo. Mi trucco perché il make-up è stato creato per far brillare. Ma non si può fissare. Sai Dick, ho un bellissimo naso comunque. Il make-up... i miei occhi sono belli in ogni caso... la matita serve solo a circoscrivere qualcosa. Un modo affinché pubblico faccia attenzione alla bellezza”. Abbozza un inchino. Sorride. E viene da pensare che questo fard, questo gusto cosmetico per l'artificio, oltre a farlo brillare come una stella, gli sia servito a coprire un difetto, o a velare il tempo che passa. Un modo per fissare se stesso in un'apparizione per la posterità. Come un'icona in attesa di un futuro. E ora che quel tempo è giunto, non ci resta che salutarlo.