La punitrice

Dal reality al teatro. Il nuovo album di Phoebe Bridgers trasforma la lingua delle reginette del pop americano. E ci racconta la fine, quindi l’inizio

Simonetta Sciandivasci

Il 21 ottobre del 2003, a Silver Lake, quartiere di Los Angeles all’epoca non ancora radical chic senza radical com’è oggi, Elliott Smith e la sua ragazza litigano furiosamente. Lui ha 34 anni, ha pubblicato 5 dischi di successo mondiale, il primo a tre mesi dal suicidio di Kurt Cobain, del quale ha la stessa tristezza irrisolvibile, lo stesso amore disperato ma non schivo. Lei si chiude in bagno – sarai anche Elliott Smith ma ora ti odio e non voglio parlare con te – e quando esce lo trova con un coltello da cucina piantato nel petto, prova a toglierlo, chiama l’ambulanza, ma niente da fare, lui muore. Non è mai stato stabilito se si sia trattato di omicidio o suicidio, si propende per il suicidio, sapete come sono le rockstar. E’ “Needle in the hay” di Elliott Smith la canzone che si sente ne “I Tenenbaum” di Wes Anderson, quando Luke Wilson si taglia le vene in bagno per amore e quel sangue che riempie il lavandino diventa la biografia di Smith.

 

Una delle prime cose che Phoebe Bridgers, 26 anni ad agosto, ha detto al New Yorker, quando ha raccontato il suo ultimo disco, uscito il 18 giugno scorso, con un giorno di anticipo rispetto a quanto annunciato, non si sa se per calcolo o per distrazione, è stata questa: io vivo a Silver Lake, non lontano dalla casa dove è morto Elliott Smith, e “The Punisher”, la canzone che dà il titolo al disco, è per lui.


L’ultimo album di Phoebe Bridgers, 26 anni, è uscito il 18 giugno, con un giorno di anticipo rispetto a quanto annunciato


 

Chi la segue da quando ha esordito, nel 2014, per l’etichetta di Ryan Adams, sa bene che Smith è il suo punto di riferimento più importante, pienamente rintracciabile in tutta la sua produzione, ma ugualmente tutti si aspettavano che quel titolo fosse un sequel di “Motion Sickness”, la canzone che ha pubblicato a febbraio di quest’anno e nella quale parla della sua relazione con Ryan Adams, che alcuni mesi prima aveva accusato, insieme a molte altre donne, di molestie, sevizie psicologiche, stalking, e che cominciava così: “Ti odio per quello che hai fatto, mi manchi come fossi un bambino”. E invece no, niente “Kill Bill vol. 2”, nessuna vendetta ulteriore, nessuna quadratura da completare. Il punisher, nello slang dei musicisti, è un fan invadente, appiccicoso, adorante, di quelli che restano in deliquio per ore dopo un concerto e non c’è modo di ricondurli alla sensatezza, al controllo. “Se Elliott Smith fosse stato vivo, probabilmente non sarei stata la persona più divertente con cui parlare, per lui. Sono una sua grande fan, conosco tutto della sua musica e ho scritto questo pezzo come se il punisher fossi io”. Sembra una banalità, un semplice espediente narrativo, e di certo è anche questo, ma è soprattutto una dichiarazione di poetica che rottama la “Me generation”, quella dei millennial, che hanno messo loro stessi in primo piano sempre, si sono piazzati le telecamere addosso per non prendersi neanche il fastidio di raccontarsi e lasciando così che le immagini facessero tutto, quelli che riconducendo a loro stessi qualunque cosa hanno finito col sentirsi vittima di tutto, quelli che hanno trasformato l’empatia in un ragionamento, e hanno preteso che formulasse delle attenuanti agli errori, e hanno dimenticato la capacità che fornisce: immedesimarsi negli altri, sentire su di sé i pesi che portano. Ma travalichiamo il dato generazionale e soffermiamoci sul tempo corrente, il nostro, che continuamente ci esorta, per non dire che ci istiga, a dirci vittime delle attenzioni degli altri, della morbosità dei contatti, dei giudizi spietati e netti, infami e codardi, che chiunque può recapitarci in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione, o anche per nessuna ragione. Punisher, in fondo, siamo tutti: adoratori prepotenti e, insieme, plasmatori di icone, invasati al punto da pretendere che gli scrittori, i musicisti, gli attori, i registi ci rispecchino, ci rassicurino, siano persone perbene, ben schierate, infallibili, pure, caste (Woody Allen è stato condannato per un crimine che non ha commesso non solo perché ci siamo convinti che quando una donna accusa un uomo di averla molestata, quell’uomo è certamente colpevole, ma pure perché non ammettiamo di ritrovarci nella spiacevole situazione di divertirci pazzamente guardando un suo film; siamo convinti che amare il mostro faccia di noi dei mostri, e allora preferiamo allontanarlo, cancellarlo completamente, punire lui per non dover punire noi stessi).

 

L’assedio dei fan, agevolato dal confine sempre meno riconoscibile tra privato e pubblico, tra lavoro e svago, tra libertà e pausa, è stato un tema per moltissime pop star. Billie Eilish, californiana come Phoebe anche se più giovane, da mesi non produce che contenuti in cui denuncia le pressioni a cui la sottopongono molti suoi seguaci. Taylor Swift, che con Phoebe condivide il genere musicale di partenza, e cioè il folk, è stata quasi divorata dalla celebrità, dalla pretesa che i fan avevano di avere in lei un riferimento sicuro, imbattibile, inappuntabile (parliamo pur sempre di Miss Americana, di colei che quando ha detto ai cittadini del Tennessee di andare a votare per le elezioni di metà mandato, in due giorni si sono registrati il doppio degli elettori che si erano registrati fino a quel momento, in un mese). Taylor Swift e Billie Eilish da punisher e hater prendono le distanze, ritengono di doverli recintare, e li mettono continuamente difronte alle loro responsabilità – guardate come sono dimagrita, quanto ho pianto, come mi sono vestita male per non dipendere dal vostro orrendo giudizio, per non compiacere la vostra cattiveria. Phoebe Bridgers fa qualcosa di parecchio diverso, e dice: quel condizionamento, quell’invasione, quell’esercito, quel punisher potrei essere io, anche io potrei non essere in grado di limitarmi, potrei nuocere senza accorgermene, insidiarmi, assoggettare – “Non posso aprire la bocca, e anche se potessi non saprei da dove cominciare, non saprei quando fermarmi”.

 

Phoebe fa il teatro, le altre fanno il reality show. Phoebe scompare per dire il mondo, le altre lo riducono a propria immagine e somiglianza. Phoebe è sindaco, le altre sono reginette. Phoebe suona, s’intona agli altri per dar loro una voce, Swift e Eillish non escono dall’auto narrazione.


Un sorriso che beffa, e contrasta con la sua voce incredibile. Lo porge in tutti i live, le Instagram stories, le dirette, le foto su Playboy


 

Ha scritto l’Atlantic che la Gen Z ha ereditato dai boomer la convinzione che intervenire sia possibile, che impegnarsi non sia inutile, due tratti che sui millennial non hanno attecchito quasi per niente (e come avrebbero potuto, se sono cresciuti vedendo il mondo che si sgretolava sotto i loro occhi?). Ora è diverso. I ventenni, gli Z che sono nati sulla polvere, s’accendono, si mobilitano, s’arrabbiano, sperano, brigano così come avevano fatto quelli di quarant’anni fa, e lo fanno nonostante lo scenario a loro disposizione sia assai più compromesso, corto, agonizzante, e tuttavia anche sgombro, libero.

 

In “I know the end”, l’ultimo brano del disco, Phoebe racconta dove vede impressa la fine delle cose, la racconta come una trasformazione e non come una morte, ci suggerisce che potrebbe trattarsi soltanto di un’intuizione sbagliata: “Non ho paura di scomparire, il cartellone dice che la fine è vicina, mi sono girato, non c’è niente, immagino che la fine sia qui”. E’ il mondo che si svuota, non è il mondo che muore. Si svuota, e aspetta.

 

Nel 1967, al Whisky a Go Go di West Hollywood, a Los Angeles, i Doors registrarono la versione definitiva di “The end”, la canzone dello sconquasso, dell’apocalisse necessaria e del parricidio, tutti passaggi necessari all’avvento del mondo nuovo, nel segno del serpente, e del Super Uomo di Nietzsche che lo avrebbe cavalcato – “ride the snake”. La cartina di Los Angeles dei Doors, Whisky a Go Go compreso, è la stessa di Phoebe Bridgers, che di loro ha la luce, la visionarietà, quel vedersi in piedi su un orizzonte sempre disteso, estendibile, e per questo fatto di mare, ma dal quale non dimentica mai di voler tornare, dal quale non intende voltare le spalle al resto, alla piccola parte che ha, nel piccolo spazio che è suo. Nel (raffazzonato, come tutti i suoi) video di “Kyoto”, pezzo stupendo dove dice a un certo punto “volevo vedere il mondo, poi ho volato sull’oceano e ho cambiato idea” – indossa una tuta nera sulla quale è disegnato uno scheletro, che ricorda molto quella che portano i ballerini nel video di “Around the world” dei Daft Punk, dove il giro del mondo si fa dentro la saletta di una discoteca, e sul fuori non c’è neppure una finestrella aperta. Se sia una citazione, un rimando, un caso non conta: la coincidenza è sufficiente.


Taylor Swift e Billie Eilish dai fan prendono le distanze, ritengono di doverli recintare. Bridgers fa qualcosa di molto diverso


 

Tutti si aspettavano un disco sulla vendetta, un’altra auto fiction sulle relazioni tossiche, sui predatori sessuali, sulla giovinezza interrotta, e invece lei ha scritto un disco sulla contemplazione, sulla fine delle cose, forse anche di tutte le cose, sul mondo che si rimpicciolisce non perché lo abbiamo in tasca ma perché non ha futuro, sull’irrilevanza dei fattori identitari, su come le prospettive brevi non siano per forza annichilenti, su cosa significa fantasticare per “una ragazza che è cresciuta nel post tutto” (così ha scritto il New York Times), su cosa sia la rabbia, e sul senso che ha, sulla mancanza di fede, e sul vuoto che lascia.

 

Nel video del primo singolo estratto da “The Punishers”, “Garden Song”, Bridgers è seduta nella sua stanza, una cameretta da adolescente, che lentamente si popola di mostriciattoli, amici immaginari, presenze né ostili né inquietanti che le portano il mondo di fuori in casa, mentre il fumo di un narghilè riempie lo spazio, e ogni tanto s’infittisce tanto da far sembrare che sia in corso un incendio. Indossa un pigiama, non si sposta mai da dove sta, quello che vediamo è un sogno, anche se non ci sono avventure, colpi di scena, burroni, inseguimenti, batticuore, suspense, simboli.

 

Phoebe Bridgers è cresciuta a Pasadena, laggiù i sogni sono industria, tutti lavorano come attori o registi, l’impresa eccezionale è essere normale. Quando era bambina, suo padre le faceva ascoltare Tom Waits e lei non ha mai avuto ragioni di ribellarsi a lui o a sua madre o all’agiata vita borghese che conducevano e rispetto alla quale non ha rimpianti, né imbarazzi. Racconta con candore che quando aveva vent’anni i suoi genitori si sono separati, e lei e suo fratello hanno tirato il sospiro di sollievo più profondo di tutta la loro vita. L’anno prima, la casa in cui abitavano era andata a fuoco: quando lo ha raccontato al New Yorker, ha aggiunto: “Che metafora folle”, e ha riso. Il suo sorriso è qualcosa che hanno notato tutti i recensori del suo disco, anche quelli dei siti più implacabili, quelli dove scrivono i fissati del vinile, gli ossessionati maniacali perfezionisti che trascorrono le giornate a ripassare i nomi di tutti i turnisti delle grandi band e dicono cose come “dopo la svolta prog non è stato più lo stesso” e sembrano tutti Jack Black in “Alta fedeltà”. E’ un sorriso che lei porge in tutti i live, le Instagram stories, le dirette streaming, le foto su Playboy: è un sorriso che beffa, e contrasta con la sua voce incredibile, adulta, che mai si direbbe uscire da quel suo corpo piccolo, acerbo, accennato. E’ un sorriso giocoso che non crea distacco dalle cose, né dissonanza, ma che ci permette di non essere preoccupati per lei: Phoebe distingue il suo personaggio dalla sua musica e, di più, protegge la sua musica dal suo personaggio, che cura assai poco, persino meno dei suoi video, o almeno è brava a farcelo credere. L’autenticità artefatta della maggior parte delle sue colleghe, che ne fanno mezzo e messaggio, non le appartiene: con loro, non condivide nessuna preoccupazione. Tutte loro hanno, almeno una volta, adottato una qualche forma ricattatoria, che è rimasta impigliata nelle loro canzoni. Diversi anni fa, Taylor Swift è finita sulla copertina del Time con la faccia quasi arrabbiata, che ci chiamava in causa e ci diceva: vi riguarda quello che canto, non quello che indosso, penso, mangio, spero.

 

In Phoebe Bridgers non c’è traccia di accuse, requisitorie contro ignoti, lezioni sulla sostenibilità, il contenimento, la modestia, la spontaneità, la salute. Niente moral suasion. Niente moral. E’ per questo che Phoebe, che comunque non manca di far sapere che è vegetariana, e fa yoga, e non beve, può permettersi di posare nuda su Playboy, divertendosi molto, e senza scatenare alcuna rissa tra leoni.


Nel video di “Kyoto” indossa una tuta nera con lo scheletro, come quella dei ballerini nel video di “Around the world” dei Daft Punk 


Apre il disco un verso politico, ed è questo: “Un giorno vivrò nella tua casa su per la collina e quando il tuo vicino skinhead scomparirà pianterò un giardino nel cortile”. La canzone finisce poi così: “Non ho paura del duro lavoro”. E’ un tema cardine: il desiderio di costruire, sudare, faticare, unire, allacciare, irrobustire, lavorare, appunto, anche se non c’è futuro, anche se il pianeta è spacciato, e forse è così bello perché è spacciato. “Monterey”, una poesia di Maggie Millner, scrittrice californiana, dice a un certo punto: “Quegli anni erano informi, privi di aroma, una tintura di sale e aria spossata. L’inverno aveva lo stesso aspetto dell’estate, che dava l’impressione fioca di un pianeta immobilizzato, di un pianeta a cui il peggio è già accaduto”.

 

A quel pianeta, questo disco offre una colonna sonora, che è una nenia e un inno, “provocatorio e importante” come è l’ultimo disco di Bob Dylan secondo Stefano Pistolini. E forse è Dylan, assai più di Billie Eilish, il collega di questa ragazza inattesa, che ci chiede se alla fine dell’orizzonte il mondo termina o ricomincia.