Il problema della musica dei marziani è che non possiamo ospitare un critico musicale marziano per spiegarcela. Dobbiamo arrangiarci, nel tentativo di capirci qualcosa. Perciò benvenuti nel mondo del K-Pop, il pop coreano che adesso sbanca le classifiche internazionali (sì, sussultate pure: piacciono anche da noi), che ingorga i social e conquista un mondo della musica, mai come oggi a corto proprio di conquistadores. Enorme è il rimbombo che ormai circonda la proliferazione di questo suono, al tempo stesso familiarissimo, in quanto ricalca matrici musicali scontate, e al tempo stesso misteriosamente alieno, poiché se ne percepisce la progettazione estranea alle vecchie formule empiriche che governarono l’ascesa e la caduta della scena produttiva occidentale, dove si convogliavano gli sforzi dei laboratori creativi e delle forze industriali. Il pop coreano non inventa niente, ma riusa canoni musicali preesistenti, spaziando dal pop sintetico al rap melodico, con striature di rock e funk, tutti eseguiti con millimetrici gradi di separazione tra una scuderia di produzione e l’altra. Un suono rivolto a una partecipazione sentimentale – fenomeno dunque per noi osservabile solo dall’esterno e con distacco, perché il suo consumo immersivo pretende appartenenze anagrafiche precise (14 è l’età buona, a occhio), geografiche (è un ritmo urbano), ma soprattutto tribali, categoria, quest’ultima, nelle quale o ci sei o ci fai. Quindi, se volete condividere l’esperienza diretta del K-Pop, un giro tra le playlist di Spotify e uno ancora più spassoso su YouTube, dove il K-Pop infrange record come grissini, sono i modi migliore per effettuare il sopralluogo. Per quanto, se state leggendo queste pagine, è ottimistico pensare che anche solo una minima percentuale di voi, giusto quelli col pallino per le sottoculture, reggeranno l’impatto coreano sul medio termine, superata l’abbrivio della curiosità turistica nei primi 5 minuti. Perciò di che vogliamo parlare? Un po’ di fantascienza, come dicevamo in apertura, in un’ambientazione “Gattaca”, nella quale il fattore musicale, anzi, quello del “piacere musicale”, viene offerto al consumatore con procedure rinnovate, prive di incognite, scoperte o di quelle sorprese che, ad esempio, nell’ultimo Novecento rivelarono le fulminanti carriere, chessò, di Madonna, ragazzotta ambiziosa di Detroit, o degli U2, gruppetto di losers dublinesi.
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