L'intervista della domenica
Il rap nell'ora di tutti
Le carceri minorili, la Roma antagonista, le urgenze, il Bronx, il voto, l'hip hop, la vita che non si possiede e una clessidra. Conversazione con Kento
C’è una vecchia canzone di Kento che parla di cosa lo muove, cos’è che ha dentro, cos’è la sua fiamma. A un certo punto dice: “È come mille cose, ma è senza paragoni”, e poi “è la conferma che un istante è importante, ma alla cassa seguirà il rullante, il sasso si farà diamante”, e poi “è fede ma non si ferma a quell’anello, e nasce piccolo che può dormirti in tasca, fallo rosso e che stia in alto come le bandiere in piazza, è questo e altro che non so dire, è un cerchio come un vinile, ha vite per puntine”. Non ne sono certa, ma credo parlasse del rap, precisamente del rap, che per lui è praticamente tutto – rubo la risposta che una volta diede Moravia quando gli domandarono cosa fosse per lui la letteratura: rispose così, “praticamente tutto”.
Kento ha scritto più di dieci dischi, suona da quando andava alle scuole medie, a Reggio Calabria, ora vive a Roma, tiene laboratori di rap nelle carceri minorili, nelle comunità di recupero – “ovunque servo, vado”, mi dice – e da poco ha pubblicato “Te lo dico in Rap”, un libro per bambini sul rap e sull’hip hop (hanno detto “un manuale”, ma forse è più giusto atlante), durante il lockdown ha preso parte al progetto Rai di didattica a distanza #lascuolanonsiferma, tenendo una serie di lezioni sulla musica rap e cultura hip hop. La Repubblica ha scritto: “Dopo tanti anni di militanza rap, Kento si cala nei panni del divulgatore”. Impreciso. Kento spiega, racconta, diffonde il rap da molto prima, forse da sempre, non c’è un suo pezzo che non illumini una parte di quella storia, che non ne dica il senso, la vocazione, l’intenzione, in modo più o meno esplicito – nel 2014 ha pubblicato un disco meraviglioso, “Radici”, insieme ai Vodoo Brothers, che questo era, un atlante, e diceva molte cose, diceva per esempio che “il rap è nato in America, ma non è dell’America”, perché allora era ancora necessario spiegare che non c’era bisogno di essere nativi del Bronx per suonarlo, per farlo.
Adesso è più facile?
Con il rap non ho barriere all’ingresso: quando lavoro in carcere con i ragazzi e propongo di scrivere una strofa, di fare freestyle, loro sanno già di cosa parlo, non ho bisogno di spiegare niente, e nel giro di dieci minuti siamo già a lavoro. Se entrassi con una chitarra dovrei prima insegnare il giro di do. Oggi i ragazzi sono nativi hip hop, per loro l’hip hop c’è sempre stato.
Perché spiegarlo ai bambini, allora?
Studiamo l’Italia anche se ci siamo nati e per noi c’è sempre stata, no? Un libro che raccontasse ai più piccoli il rap non esisteva e allora ho deciso di scriverlo per colmare questo vuoto. Credo fosse importante sia perché per un ragazzo dei 2000 o addirittura dei Dieci la mitologia della golden age degli anni Novanta e, prima, degli anni Settanta, che per noi è scontata, può non esserlo affatto, e può sapere chi è Eminem ma non chi c’era prima di Eminem, e sia perché tutta la storia del rap è affascinante, bella, e raccontarla adesso è importante. Mai come adesso. Il genere più popolare al mondo nasce nelle periferie più povere delle metropoli statunitensi, inventato e creato da afroamericani e ispanici. Mi sembra un passo con un valore sociale e culturale assolutamente non trascurabile.
È stato difficile?
Non avevo mai scritto per bambini, quindi mi sono affidato a un editore specializzato, Il Castoro. I libri sono anche un lavoro di squadra, dopotutto. Volevo essere prima di ogni cosa chiaro, accessibile e filologicamente corretto.
Come si racconta la realtà a un bambino?
Fidandosi di lui. Mentire, omettere e fargli la morale non serve a niente. Bisogna dirgli le cose come stanno nel modo più semplice possibile, affrontando anche le criticità, per esempio spiegare perché nel rap si parla tanto di droga, e perché nei testi ci sono spesso molte parolacce.
E agli adulti, che sembrano essere diventati più suscettibili e intoccabili di un bebè, come si racconta la realtà?
Con il rap. Davvero. Penso che non si possa raccontare la società di oggi senza parlare di rap: sta al nostro tempo come il rock stava agli anni Settanta.
Lo facciamo molto poco, però, almeno in Italia.
Ti correggo. Lo facciamo ancora poco. Ho in testa quella frase di Bruce Lee, quando dice: “Non sono esperienza, faccio esperienza”. Ecco, da un po’ di tempo a questa parte ho capito che non voglio semplicemente fare il rap: voglio esserlo.
Mi sembri un ottimista. Lo sei?
Sì, certo. Lo sono per definizione. Sono comunista, credo nella rivoluzione.
In quale rivoluzione?
Quella che darà il potere alla gente comune. Non potrà non esserci, è una tappa obbligata. E spero di trovarmici, quando sarà.
La rivoluzione a costo della vita la faresti?
Sarei fortunato a poter partecipare, come lo è stato mio nonno a esserci quando l’Italia s’è liberata dal fascismo. A esserci e partecipare.
In una tua canzone c’è un verso contro i fascisti che dice: “Vi ha già presi a calci nel culo mio nonno nel 45”. Pensi che il fascismo sia una minaccia reale?
Non c’è un rischio di regime, non immagino un’invasione di camicie nere. Ma temo, e credo che sia un timore parecchio fondato, un’indifferenza sempre più diffusa e, ancora di più, una guerra tra poveri dove chi ha bisogno veda il nemico in altri bisognosi come e più di lui. Sono rischi meno plateali di una dittatura, ma altrettanto brutali.
Tu dici che l’hip hop ci salverà. Io dico che i bei libri ci salveranno (e anche le pizze e il vino). Tutti diciamo sempre che quello che amiamo ci salverà. Non specifichiamo mai da che cosa. Tu lo sai? Da cosa pensi che ci possa salvare l’hip hop?
Dall’eroina e dal nichilismo. Tempo fa ero in carcere, facevo un laboratorio con alcuni ragazzi e mi si è avvicinato il più criminale di tutti e mi ha detto, sai, ho deciso che voglio fare il rapper, così posso comprare tutte le macchine del mondo e avere tutte le donne che voglio! Io ci ho pensato un attimo, mi sono chiesto se dovessi rispondergli che il rap è un’altra cosa, serve a un’altra cosa, e invece ho capito che sarebbe stato sciocco, e gli ho soltanto detto, bravo, tu scrivi, impegnati, concentrati, lavora sodo, e vediamo dove arrivi. Sono ragionevolmente convinto che non comprerà tutte le macchine e non rimorchierà tutte le ragazze del mondo, ma so che nel momento in cui metterà la penna sul foglio e si concentrerà per trasformare un pensiero astratto in un discorso logico, da qualcosa si sarà salvato, e per la prima volta nella sua vita si sarà sentito qualcuno che può raccontare qualcosa e non soltanto un detenuto cui vengono abbaiatigli ordini. Mettere una mano su un foglio ci salva. Non ho alcun dubbio su questo.
Come vanno le cose nelle carceri minorili?
Come quando entro in una scuola, anche lì ci metto pochissimo ad accorgermi della presenza o dell’assenza di qualcuno che si spenda, che faccia più di quello che gli viene richiesto. Per fortuna o purtroppo ogni istituto carcerario fa storia a sé e anche una sola persona che vuole gettare il cuore oltre l’ostacolo può fare una differenza.
Credi che la detenzione sia utile?
Non per i ragazzi. Se chiudi un minorenne in una cella non gli fai alcun bene. Lavoro in queste realtà da anni e non ho mai visto un ragazzo ricco: finire in galera da ragazzini è molto difficile, e chi può pagarsi un buon avvocato, ha una famiglia alle spalle e ha dei mezzi culturali e linguistici per esprimersi, non finisce dentro. Alle misure alternative alla detenzione non accedono i più svantaggiati, i meno attrezzati. In questo, il carcere minorile palesa il classismo della società italiana in modo impressionante.
Il carcere lo aboliresti?
A questo modello di carcere non credo. La pena dovrebbe essere volta al reinserimento sociale del detenuto, come dice la Costituzione. E se questo per l’adulto è un elemento concorrente rispetto al fine retributivo della pena – pagare per quello che hai fatto -, anche se pure di questo ci sarebbe da discutere, per il minorenne è il solo elemento in gioco, l’unica ragione. I giuristi sono concordi su questo: la pena deve servire solamente a reinserire, anzi inserire, il ragazzo nella società. Se ci sono così tante recidive e così tanti ragazzi che, anche quando escono, rimangono ai margini e non hanno altra alternativa che tornare a delinquere, significa che il nostro modello non funziona. Non sono uno studioso, sono soltanto uno che va là dentro a fare laboratori di rap, ma credo sia un fatto innegabile. Proprio perché non sono un giurista non sta a me dire se sarebbe giusto o meno abolire il carcere, ma so alcune cose. Primo, c’è tutta la differenza del mondo tra un ragazzo che ruba perché non ha da mangiare e ha sempre vissuto in strada, e un boss mafioso. Secondo, non esiste il retto e il criminale. Terzo, dobbiamo stare attenti al panpenalismo d’emergenza, l’idea che quando la società presuppone che ci sia un’emergenza, si debbano inserire norme penali, inasprirle, sbattere la gente dentro. È una deriva autoritaria sottile ma possibile. ln carcere ci devono stare i mafiosi, non quelli che si comprano da mangiare facendo rapine.
Arriviamo a quattro.
Insegnare a un ragazzo come si legge un fascicolo di tribunale farebbe tutta la differenza del mondo.
Cos’è l’illegalità responsabile?
Non obbedire alle leggi ingiuste. Non pensare che qualcosa è giusto solo perché è legge.
A quali leggi disubbidisci?
Ci sono leggi con cui non sono d’accordo. Non ho un ruolo militante nell’illegalità responsabile, ma cerco di cambiare quello che non mi piace. Lo faccio attraverso la musica. Faccio militanza attiva con la musica. Sono in contatto con molte realtà antagoniste che fanno politica. La mia ultima tessera l’ho avuta vent’anni fa.
Perché il centrosinistra non arriva in quelle realtà e viceversa? Chi non va da chi, chi rifiuta chi?
Dovresti chiederlo al Pd. Forse perché è un partito legalista, forse perché il mondo antagonista non porta voti, ma al massimo ne toglie. Dall’altra parte, invece, capisco la diffidenza verso i partiti: sia da destra che da sinistra, alle realtà autogestite non sono arrivati che calci in culo.
Che peccato. No?
So solo che se cerco l’utopia e i colori e la creatività e le idee non cerco nel Pd. Ieri ho suonato al Metropoliz, a Roma, dove c’è un museo popolare con oltre 600 opere, ed è un posto che mi interessa più di qualsiasi sezione del PD.
Che sinistra sogni, se ne sogni una?
Una sinistra che rimetta la questione sociale al centro del suo programma politico. Ho il massimo rispetto per i diritti civili, sono sacrosanti e innegabili, ma da anni non sento parlare di questione sociale nella politica italiana.
Occuparsi di quei diritti è più semplice?
Il punto è un altro. Il punto è che è ampiamente ipotizzabile una società barbaramente capitalista dove però le persone omosessuali hanno dei diritti del tutto pari a quelli degli eterosessuali. Affermarli non stravolge la società, perché sono ovvi, basici, naturali. Invece, mettere in discussione il rapporto tra capitale e lavoro presuppone un cambiamento sociale radicale.
Come ci si merita il “privilegio del microfono in mano”?
Attraverso la consapevolezza del mezzo espressivo. Posso dire facciamo la rivoluzione, che bello fare sesso, facciamoci le canne, non facciamocele, ed è per questo che è importante che io sappia cosa sto dicendo e che io abbia coscienza del mezzo espressivo e del fatto che qualcuno mi ascolta.
In una tua canzone giochi su Hip Hop e ne fai l’acronimo di “ho idee potenti, ho obiettivi precisi”.
Ho molto chiaro quello che voglio che la mia musica faccia e diventi in futuro, e anche cosa farò domani. E’ quello che sta nel mezzo tra questi due poli a sfuggirmi, ma sono felice di poterlo scoprire pian piano.
Come fai a essere così sereno?
Non so se sono sereno, ma so cosa voglio. Scrivo soltanto quando devo scrivere.
E quando?
Quando l’urgenza è insopprimibile. Io sto sempre scrivendo: una poesia mentre lavoro a un libro, un disco penso al libro nuovo. Ma cerco di trattenermi, e buttare giù quando davvero le mie idee sono mature. Le idee e il modo in cui voglio scriverle e dirle.
Non ci metto mai più di venti minuti a scrivere una strofa: se sforo, la mollo, significa che non è ancora matura in testa.
Di cos’hai paura?
Di niente. Ma vorrei più tempo.
Nemmeno di morire hai paura?
Un artista è immortale.
Dai. Rispondimi da uomo.
Quando ero molto piccolo, mia madre aveva un libro di cui ricordo distintamente soltanto una vignetta: c’era un vecchio che mangiava una clessidra. Sotto, c’era scritto: “è bello, dopo il morire, vivere ancora”.
Il disco che avresti voluto scrivere?
Se proprio devo sognare, “Tra l’Emilia e il West”.
Oggi andrai a votare?
Certo. Ho sempre votato. Ma rispetto chi non lo fa. L’astensione fa parte del diritto di voto.
Perché non crediamo più alla politica?
Perché ne abbiamo una visione limitata. La pensiamo come qualcosa che per forza deve passare dall’istituzione pubblica, come qualcosa di vicino al palazzo. E invece la politica, se fatta bene, è al servizio dei cittadini.
Sei convinto del potere di intervento sulla realtà della musica?
Penso che la musica possa fare due cose: raccontare la realtà, ispirare le persone. Sono entrambe molto importanti.
Non sei stufo di questa retorica dell’ispirazionale? Questa coazione all’eccezionalità? Sembra che il talento serva soltanto a primeggiare.
Io spero di non diventare eccezionale, ma di venire ascoltato da tutti, di fare canzoni belle per tutti.
Puoi vivere la vita, ma?
Ma non la puoi possedere.