L'intervista della domenica

"Finiscono le dita, incomincia una chitarra"

Simonetta Sciandivasci

Le premonizioni, Milano, il lago di Garda, gli Scisma, Mina, gli sgabuzzini, molti fragilissimi anni, le mamme, gli ulivi. Conversazione con Paolo Benvegnù

Incontro Paolo Benvegnù al Monk di Roma. Un posto radical chic senza radical; indie pop, sessanta per cento pop e quaranta per cento indie. Quando aprì, alcuni anni fa, molti sperarono che diventasse l’erede del Circolo degli Artisti, e fu una speranza ingenua, tradita immediatamente, com’era giusto, inevitabile. Del CDA non è più il tempo perché non c’è più l’indie, o almeno l’indie degli anni Novanta, quello di Afterhours, Massimo Volume, Ritmo Tribale e Scisma, appunto. Benvegnù fondò gli Scisma a 28 anni, poco dopo aver capito che gli sarebbe piaciuto provare a fare concerti migliori di quelli che andava ad ascoltare. Erano fichissimi. Fluidi. Molto teatrali. “Non potevamo rappresentare una generazione”, dissero, e non durarono poco: dieci anni. Poi si presero una pausa, poi B fece il suo primo disco solita, il primo di parecchi altri, e alcuni gruppi ne fecero uno per omaggiarli, cantando i loro pezzi.

In un’intervista di qualche anno fa, Benvegnù ha detto: “L’uomo si divide tra reale e immaginario. Il confine tra le due cose è una frammentazione: lo scisma di cui volevamo parlare”. Erano anni così, i musicisti avevano ambizioni così. Finiti gli Scisma, Benvegnù ha avviato una carriera solista che oggi ha ripercorso, in parte, in un disco acustico molto poetico, forse il suo lavoro più poetico ed essenziale, “Delle inutili premonizioni” (Black Candy). Prima che ci incontrassimo, Paolo mi aveva scritto una mail parlandomi di molte cose, alcune incomprensibili, però scritte meravigliosamente, e io temevo che avrebbe preteso davvero che camminassimo “da Marco Aurelio alla dissoluzione”, temevo che davvero si aspettasse che facessimo “un simposio senza cibo”, cosa che immagino molto simile al sequestro di persona. Avevo letto su Rockit che qualcuno lo aveva definito “co-fondatore dell’ipersensibilismo internazionale” e questo mi aveva agitata ancora di più. Invece, appena sono arrivata all’appuntamento, prima ancora che mi sedessi, mi ha fatto le feste come se stessimo per partire per il viaggio più divertente del mondo, e aveva già ordinato vino e torta. Per me e basta. Lui è festoso, ma astemio.

 

Astemio! Uno dei padri fondatori dell’indie rock italiano.

Sono cardiopatico, il vino mi fa male. Ma lei beva. Beva, per favore, così mi sopporta meglio.

 

Non mi sembra antipatico.

Non lo sono. Mia figlia dice sempre che sono simpatico, ed è una cosa di cui sono molto fiero, non è facile essere simpatici ai bambini, specie ai propri.

 

E allora?

Parlo molto.

 

Come le sue canzoni. Verbose. Verbosissime.

Perché sono canzoni di ricerca. E perché voglio essere preciso e chiaro. Ci tengo a dire: questo è il soggetto, sto parlando di questo. Con me nessuno lo ha fatto: a parte il mio maestro di scuola elementare, a nessuno è interessato accendere la mia curiosità, farmi scoprire la mia parte desiderante, quella che vuole conoscere, osservare, spingersi oltre il visibile, il noto, il certo. Dev’essere stato per questo che ci ho messo tanto a capire cosa volevo fare.

 

Quanto?

Ho cominciato a suonare a 23 anni. Facevo il barista sul Lago di Garda, andavo a moltissimi concerti, non tutti mi piacevano. Pensai: e se ne facessi di miei?

 

Sa che è difficile trovare le parole per descrivere il suo lavoro?

Perché le uso tutte io. Gliel’ho detto che ha ragione a darmi del verboso. Sono pedagogico, anche, o almeno vorrei esserlo. 

 

Questo è un po’ paternalista. 

Ma no, vede, io sono nato nel 1965, a Milano, in una famiglia di sottoproletari. All’epoca, significava subire la città. E infatti io la subii a lungo. Poi persi mio padre a diciassette anni, quindi non lo conobbi mai, di lui non mi sono rimasti che i gesti abituali, l’odore. Mi sentii abbandonato. Vissi un periodo di grande alienazione. E forse da quella alienazione voglio proteggere tanto chi mi ascolta quanto la mia musica.

 

Che musica è la sua?

Per me scrivere canzoni è un fatto di ricerca, prima di tutto, e poi di costruzione: significa trovare la materia nell’immateriale. Non ha niente a che fare con la metafisica, ma ha a vedere con il magico, con il vedere qualcos'altro rispetto a quello che percepiamo.

 

Lei crede così di poter arrivare alla verità? Voglio dire, demolendo una sovrastruttura, si finisce per costruirne un’altra. O c’è davvero un modo per uscire dall’autorappresentazione?

È certo che non avremo mai accesso alla realtà così com’è. La nostra sarà sempre una rappresentazione, quindi un'interpretazione. Proprio per questo è così interessante cercare di non fermarsi alla prima, quella codificata da tutti, che ci mette tutti d’accordo. I gatti vedono diversamente da noi, i cani e gli alberi anche. Tra gli uomini vorrei che ci fosse un tacito accordo: smetterla di vedere le cose così come stanno, perché tanto le cose non stanno così come stanno.

 

Tortuoso.

Peggioro la situazione se le dico che dobbiamo estrarre il magico dall’uomo?

 

Ma no, si figuri. Lei è indie. Anche se non si è mai capito bene cosa volesse dire.

Bello, no?

 

Lei una volta ha detto: mi sento puro come un giglio.

E oggi le dico: non sono mai stato tanto pulito. Significa che, data la mia percezione delle cose, so esattamente cosa posso essere, che tipo di predisposizione ho.

 

Che predisposizione ha?

Alla ricerca e all’impegno. Non ho talento, non ho un dardo fiammeggiante da scagliare. Osservo. Studio. Mi manca la fantasia: non sono un creativo. Prendo tutto da ciò che mi sta intorno, cerco di capirlo profondamente, di addentrarmici. E poi provo a farne un racconto.

 

Un racconto molto dettagliato.

Certo. Perché non ho fantasia, quindi come posso sintetizzare il creato, quello che vedo e quello che immagino? Devo per forza raccontarlo per intero.

 

Quindi le canzoni lei le cerca. Non arrivano.

Arrivano perché le cerco.

 

Si è mai posto il problema di essere allettante da un punto di vista commerciale?   

Non ho mai pensato di stare sul mercato.

 

Privilegiato.  

A un certo punto diventi un funambolo. E cominci a pensare che a qualcuno possa interessare ascoltare chi ha da dirgli cosa vede guardando il nulla, tirando un sasso in uno stagno, concentrandosi su un muro.

 

La solita storia del “quando sono affacciato alla finestra sto lavorando”?

All’inizio sì, te la devi raccontare così. Dopo, però, tutto diventa strettamente legato a ciò che ti succede durante l’inattività. E siccome è ovvio che l’inattività per un essere umano è strettamente legata all’attività cerebrale, devi anche accettare di passare moltissimo tempo ad annoiarti e a stare solo. È un lavoro sugli abissi. E io l’ho fatto.

 

È stato spaventoso?

Mi sono buttato via milioni di volte.

 

Cioè?

Non mi sono impegnato nell’utile, ma nell’inutile. E questo da un punto di vista sociale significa buttarsi via. Finalmente ora so che cosa devo e mi piace fare: scrivere canzoni, vivere in un posto piccolissimo, avere delle idee e costruire cose che il più delle volte non servono a niente, ma che forse producono informazioni per qualcuno, ammesso e non concesso che a qualcuno possano interessare. Non ho alcuna ambizione di sedurre nessuno né di fare in modo che qualcuno sia interessato a quello che faccio. Io sono uno che guarda le cose, non uno che sta sul mercato. Pasolini diceva…

 

L’immancabile Pasolini.

Sì, immancabile. Pasolini diceva che esiste la musica di intrattenimento e quella di espressione.

 

Ma si possono unire.

Non sempre. I Radiohead lo hanno fatto. Pensi a "Kid A" e "Amnesiac": sono due dischi sexy perché non c’è mai il corpo fermo. Io invece faccio dischi con il corpo fermo. Non sono in grado di fare diversamente.

 

Forse è cresciuto in un tempo in cui si poteva.

Quelli che facevano indie in Italia, tutti, compresi gli Scisma, avrebbero all’epoca fatto carte false per diventare i migliori del mondo. E infatti da lì qualcuno che ha avuto successo davvero è venuto fuori. E non perché ci fosse stato uno sdoganamento culturale dell'indie: si è lavorato strenuamente affinché accadesse.

 

Allora perché quando c’è stata la svolta pop e Agnelli è andato a X Factor e sono arrivati Gazzelle, i The Giornalisti, Calcutta, in tanti si sono indignati?

È un discorso legato alla privazione della propria appartenenza. Gli esseri umani sono figuranti antropomorfi, ipermoderni, ma per certi aspetti sono ancora arcaicissimi: prova a togliere a una tribù il suo simbolo di appartenenza e vedi che casino. Questo è successo con Manuel: in molti lo consideravano la propria bandiera, e quando quella bandiera è andata in altri territori, si sono sentiti senza casa. Tuttavia, Manuel ha sempre cercato un certo tipo di adesione, ha faticato per arrivare dov’è e ha fatto bene. La mia visione delle cose dall’ultimo disco degli Scisma in poi è molto diversa: non mi interessa altro che suonare. Lo faccio per me. Mi interessa non il pubblico, ma il privato. E con privato non intendo i fatti miei, ma la privazione, mia e degli altri: quello che ci viene tolto perché non ci viene detto come vederlo. So che è pochissimo, è un filo sottile e per questo non pretendo di avere uno spazio largo, di conquistare le masse. A me interessa far succedere, non il successo.

 

Una volta ha detto che tutto è politico. Come concilia questa sua vocazione minoritaria con questo?

Ma il privato è politico, ce lo ha insegnato il femminismo.

 

Mi ha incastrata.

La politica ha a che fare con gli uffici stampa. Gesù Cristo ne ha uno potentissimo. Se ce lo avesse avuto Zarathustra, noi due adesso staremmo parlando di altro.

 

La facevo un tormentato.

Lo sono stato a lungo, perché non sapevo chi ero. Ora lo so ma non significa che sono risolto. Se lo fossi, forse, mi accontenterei di essere un insieme di cellule che sanno perfettamente cosa devono fare e lo fanno, meccanicamente. Tuttavia, so anche che quando uno vale, è. E allora non ha importanza quello che fa, ma il grado di consapevolezza di sé che ha nel farlo. In quella consapevolezza, visto che ci prendiamo tutti terribilmente sul serio, dovrebbe rientrare anche la cognizione della nostra infinita piccolezza. Visti dalla luna neppure esistiamo. Però, quaggiù, se è vero che la materia si comporta nella giusta maniera quando non la guardiamo, dobbiamo cercare di prescindere dallo sguardo altrui.

 

Insomma mi sta dicendo ancora di fregarsene di quello che vuole la gente.

No. Io le sto dicendo che è importante smettere di credere di sapere cosa la gente vuole.

 

Perché ha deciso di fare un disco di raccolta di vecchi testi? Tempo di bilanci?

Faccio questo lavoro per capirmi. Tornare sulla vecchia produzione e studiare un nuovo modo di proporla, significa anche capire che strade ha preso, vedere cose che prima non vedevo.

 

Qual è la sua generazione?

Quella degli spettri.

 

Sia un po’ più specifico.

Sono cresciuto tra chi credeva che le dighe si facessero per fare del bene, trattenere l’acqua e dare energia e chi, invece, mentre le costruiva sapeva benissimo che erano fatte male e sarebbero crollate ammazzando delle persone. C’erano gli istruttori e i succubi. Abbiamo perso, tutti, sin dall’inizio.

 

Negli anni Ottanta dov’era?

A Milano.

 

Come la trova, adesso?

Quando ci torno, non la riconosco, non c’è più quella soverchiante tristezza che quando ero ragazzino era legata alla produzione e che adesso si sente di più nella provincia, anche se ha un senso diverso. Se vai a Mantova il 7 di novembre e c’è la nebbia, avverti una tristezza creativa e naturale. Trent’anni fa, invece, non c’era modo di sentire niente: si era tutti presi dal voler trasformare la pianura padana, un mondo di bovini, in una specie di avamposto della produttività intelligente. Sulla produzione non c’è alcun dubbio che ce l’abbiamo fatta. Sull’intelligenza ho qualche perplessità in più. Amavo Milano soltanto quando camminavo di notte, non c’era nessuno, mi capitavano cose incredibili e certe volte sentivo il profumo del bucato accanto ai Navigli.

 

Se domani si stancasse di fare il musicista?

Datemi un campo da arare e lo aro. M’impegno.

 

Esiste il destino?

Un detto gardesano che mi piace molto, anche se non è molto romantico, dice: l’è success. Le cose succedono, punto. Noi siamo la reazione a quello che succede, ma non lo possiamo determinare.

 

Ma lei l’anno scorso ha fatto un disco, “Dell’odio dell’innocenza” ,con le canzoni registrate su un cd che ha trovato nella cassetta della posta!

Vede? Ho reagito. L’è success.

 

Lei è davvero felice come dice di essere?

La felicità è provare piacere in quello che fai anche se per gli altri è poco. E poi è stare nascosto. Ho sempre scritto dischi in posti piccoli, sgabuzzini. Il disco che è mi venuto peggio, il penultimo, l’ho scritto in una casa grande. Era una bella idea, volevo parlare della molecola che compone l’universo, ma non basta una grande idea. Non ha funzionato. L’è success.

 

Parla un po’ da ricco.

Invece non lo sono. Però per anni sono stato solo e ho dovuto fare cose che adesso mi posso permettere di evitare, e le ho fatte per mangiare. Una volta prima di un concerto sono uscito da una torta.

 

La pagarono molto?

Una miseria. E io come sempre divisi con gli altri ragazzi della mia band. Però fu divertente. Oggi se a volte non riesco a portare il denaro a casa, posso contare sulla mia compagna che fa l’operaia. E questo mi permette qualche libertà in più.

Perché non si sposa? 

Io vorrei, ma a lei il matrimonio non convince. Che ci posso fare. 

 

Cos’è l’amore?

Tutto quello che facciamo da vivi: a-mors.

 

Com’è andata con Mina?

Mi chiamò sua figlia, Benedetta Mazzini. Ero in studio a Perugia. Disse: pronto, sono Mazzini. Ovviamente, risposi: e io Garibaldi. Sono un uomo medio, cosa crede? Benedetta aveva sentito “Piccoli Fragilissimi Film”, il mio primo disco solista, le era piaciuto e lo aveva fatto ascoltare a sua madre, che si era innamorata di “Io e te” e quindi avrebbe voluto rifarla. Ne fui contento. Il pezzo finì in "Caramella". Benedetta mi disse che, se fossi andato in Svizzera, Mina mi avrebbe fatto le polpette, ma non ci sono mai andato. La cosa buffa è che, in quel disco, “Io e te” era la sola canzone che non avevo scritto io, ma Matteo Anceschi. Però a Mina non lo dissi. Sono un vigliacco, io! Con gli Scisma vincemmo un premio Ciampi come miglior disco d’esordio con un disco che però non era il nostro primo lavoro e stetti zitto anche quella volta: nessuno era più italiano e ambizioso di me…

 

Ora non è più ambizioso.

Come no? Io voglio continuare a fare ricerca. Le sembra poco ambizioso?

 

Diciamo che non è un carrierista, ecco. Questo fa di lei una persona libera?

Se sia questo non lo so, di certo mi sento libero. La libertà me la sono guadagnata, con molta fatica e parecchia solitudine, ma ho imparato a smettere di cercare l’interpretazione giusta, ho fatto pace con l’errore, ho imparato a scegliere, ho smesso di farmi scegliere.

 

Cosa mal tollera del nostro presente?

Il fatto che nessuno mi dice cose nuove e tutto è prevedibile. Quando formammo gli Scisma, ci ponemmo l'obiettivo di fare cose inaudite.

 

Inedite!

 No, proprio inaudite.

 

Fu un peccato quando vi scioglieste.

Ne soffrii enormemente. Lasciai Milano e presi a viaggiare. Mi sono reso conto poco tempo fa di essermi sempre spostato seguendo gli ulivi. Prima la Toscana, adesso l’Umbria, dove vivo. Forse è dipeso dal fatto che, quando ero piccolo e mia madre mi portava sul Lago di Garda, mi allontanavo dalle tensioni che respiravo a casa. Lì era pieno di ulivi, quei posti sono un surrogato mediterraneo a nord. Ricordo enormi silenzi, così enormi che a volte mi mangiavano. Ma erano bellissimi.

 

In Toscana ci è rimasto a lungo. Per amore?

Anche, certo. Fino a una decina di anni fa, in Toscana e soprattutto a Prato, c’era una scena musicale vitalissima: insieme a quella bresciana, tirava fuori gruppi notevoli. Io avevo lo studio a Prato, mi divertivo.

 

E poi?

E poi crollò. Lo studio, dico. Cadde a pezzi.

 

Scusi?

Sì, per colpa dei lavori della tangenziale. Una roba da "Amici Miei". Un giorno ero a Bolzano, mi chiamò il mio socio e mi disse che era crollato tutto. Voleva fare causa all’Anas, gli ricordai che non avevamo un contratto d’affitto e quindi niente, ci tenemmo i cocci. 

 

L’anno scorso, tre settimane prima che iniziasse la pandemia, quando uscì il suo ultimo disco inedito, lei disse: dobbiamo tornare al microscopico. E poi ci siamo tornati, accidenti: non parliamo che di virus. Porta sfiga o è un profeta?

La ricerca artistica, almeno come la concepisco io, ha un senso se diventa divinazione. Per uno che perde tempo guardando per un anno una crepa in un muro, che cosa ci può essere di più affascinante di indovinare il futuro?

 

Che cosa farà domani l’umanità secondo lei?

Niente, non bisogna fare niente.

 

Questo è un po’ terrone.

Lo diceva anche Asimov. Terrone anche lui.

 

Che papà è lei?

Non avrei mai pensato di essere così accogliente. Però mi sarebbe piaciuto infinitamente di più essere madre. Non c’è paragone. In assoluto, nella vita, avrei voluto fare la madre. Ogni tanto facevo performance da cantante donna perché le donne sono generatrici. Quando Michelangelo prese a martellate il Mosè credo che fosse arrabbiato perché capiva di non poter costruire niente in carne e ossa: solo una donna può. Gli uomini possono fare trivelle spaziali, grattacieli, ma niente di tutto questo è anche soltanto comparabile al miracolo di far crescere un corpo nel proprio corpo. 

 

Perché l’indie si è disperso?

Nel '99, mentre registravo "Armstrong", il terzo album degli Scisma, mi chiamò il mio discografico di allora: mi disse che al Castello Sforzesco c’erano “cinquantamila zainetti che saltavano” a un concerto dei Prozac +. Era esaltatissimo. Credo volesse dirmi che dovevamo immetterci in quel filone, perché in quel filone qualcuno ci avrebbe messo molti soldi. E così fu: quella scena, a Milano, fu creata anche investendoci parecchi soldi. Io, però, ero già lontano da lì. Volevo fare altro.

 

Cosa c’era di bello?

Nessuno cercava una formula.

 

Mi dice una cosa di cui un po’ si vergogna?

Innanzitutto, vergognarsi è molto importante. A volte mi scopro conservatore. Mi sento Claudio Villa.

 

Prima ha detto "vieppiù".

Lo so, a volte parlo come Nicola Arigliano. Però vieppiù è una parola bellissima, la uso spesso.

 

La musica arriva dove non arrivano le parole?

Certo. La musica è fango: legata alle parole, oltre a dire, crea.

  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.