Tutto cambia, niente cambia
Il macigno della nostalgia ci fa credere che non ci saranno più le canzoni di una volta
Madame, i Maneskin, Achille Lauro e gli altri. A Sanremo, tra le cose successe, ce n’è una che scava in un solco ostinato, sempre lo stesso: c’è stata la presa di potere del suono contemporaneo
È diventata una questione di statura. A Sanremo, tra le cose successe, ce n’è una che scava in un solco ostinato, sempre lo stesso. C’è stata la presa di potere del suono contemporaneo, che ha poco a che vedere con quello novecentesco, sebbene questo abbia offerto fiera resistenza. Adesso la musica si fa come la fa Madame. Ci sono debiti verso il passato, ma c’è anche una rinfrancante differenza che si nota subito, nell’uso della voce, nel fraseggio. Tocca starci, a dispetto dello scorno dei molto-adulti, perché questo è il suono di chi in esso si riconosce, lo sente organicamente suo e i rosicamenti lasciano il tempo che trovano – basta consultare le classifiche di streaming.
Poi ci sono fenomeni evolutivi spiazzanti, come ciò che ha messo in scena Achille Lauro, la sua artistica installazione di misticismo coatto, irrigata di brividi d’oggi, vetrine di via del Corso, eppure convinta d’essere il terminale di un rock’n’roll nuclearizzato, rinato in un’altra epoca. Poi c’è il dibattito tristino sulla natura dei Maneskin, colpevoli d’aver vinto, scatenando rabbie social sul fatto che siano veri o finti, rock o no, e se il rock adesso è rock, o è un cadavere, e che senso ha tutto ciò e come si permettono, Damiano e soci, di parlare di rivoluzione, mettendosi in bocca quel sacrilegio. Si può risolvere la questione salomonicamente, dicendo che va bene tutto, che Maneskin sono veri e finti, pre e post, ci fanno e ci sono, e che in questo sono figli del tempo e dei prodotti digeriti e riprodotti. Quel che fanno gli riesce benino e verrà loro spontaneo, dove in questa spontaneità ci sarà pure quel tanto di calcolo e di riuso perché oggi è così che le cose vanno avanti.
Poi c’è la questione che non trova sbocchi, il cul-de-sac della nostra musica, dal momento che – è evidente – per un ecumenico sentimento condiviso, per una tradizione poetica inscalfibile, gli italiani continuano ad avere bisogno della canzone d’autore, del racconto emozionale in versi. E a Sanremo, per la lungimiranza con cui è stato allestito il cast, c’erano eccome i rappresentanti di questo genere, c’erano i nuovi come Fulminacci – e citerei i gemelli “giovani” Dellai, scansati dall’irruenza delle giurie – La Rappresentante di Lista, e Willie Peyote e quelli arrivati a maturazione, Gazzé, Colapesce e DiMartino. Fanno tutti un lavoro egregio, cantano bene e con convinzione canzoni strutturate, ricevono simpatici riconoscimenti, crescono di qualche pollice, ma la cosa finisce lì. Paragonarli ai classici è ancora una bestemmia, un tradimento della storia. “Santa Marinella” di Fulminacci è una canzone perfetta, guarda alle radici (De Gregori), rievoca fasti corali (“Hey Jude”), racconta con liricismo i soliti sconquassi emotivi di un’anima delicata. Gran pezzo, con i crismi utili a produrre affezione. Ma c’è un soffitto basso sopra questa musica, un incantesimo, perché Tenco e Fossati, i diversi Francesco e Vasco sono altrove, appartengono a un inarrivabile paradiso dantesco della canzone.
Dov’è il trucco? Dov’è il pertugio che permetta di sancire, perfino di accettare, prima di tutto nella considerazione del pubblico, l’omologazione tra passato e presente, tra classico e contemporaneo? Forse è questione di argomenti. Forse la statura la determinano i contenuti, anche se la forma è all’altezza. Se è così, la partita è persa. Non è organico a chi canta canzoni oggi occuparsi dell’assoluto, ma piuttosto concentrarsi sul particolare, dando spazio all’autocommiserazione. Altro che “La Locomotiva”, altro che “Niente da Capire” o “Lontano Lontano”. Non è un caso che il pezzo di Peyote e quello di Colapesce siamo movie-movie, parlino di questo, del fatto che non si riesce più a usare le canzoni per parlare di cose “serie”. E c’è un’altra cosa che frega questi artisti: il macigno della nostalgia. Com’eravamo, com’era questo paese quando pensava d’andare di corsa, quando si combatteva per le giuste cause, quando c’erano buoni e cattivi. Loro, quelli del Novecento, lo sapevano e lo cantavano e anche quando parlavano d’amore, sembrava il riposo del guerriero. Adesso i cantautori non smettono d’essere figli di quei padri, che a loro volta non fanno niente per agevolare il passaggio. Del resto altrove non stanno meglio, pensate a Dylan e Springsteen.
Per cui Sanremo va in soffitta annunciando sconquassi, che mica sono successi. Tutto cambia, niente cambia. I fondatori restano lassù e noi ci consoleremo d’estate, sentendo “Santa Marinella” nell’autoradio. Non è colpa degli ultimi arrivati. È colpa della musica, dannazione. Non ce la fa più a convincerci che ci siano emozioni come quelle di una volta. Ed è colpa nostra, resistenti adoratori di vecchi, austeri idoli. Che se tramontassero, ci porterebbero via con loro.