La versione di Brondi
La “Chitarra nera” racconta come il presente ha cambiato la generazione del cantautore
La canzone che Vasco Brondi ha scritto quando ha ripreso a suonare, dopo un anno e più che ha trascorso “senza toccare nemmeno la chitarra”, si chiama “Chitarra nera”, dura cinque minuti, è recitata più che cantata, è “il film a parte” di “Paesaggio dopo la battaglia”, il disco che uscirà a maggio.
Il produttore, Federico Dragogna, ha scritto che è “una storia con la musica sotto, cioè forse una canzone e forse no”.
Non ci importa niente del formato. Conta quello che Vasco Brondi è da molti anni e in modo sempre più chiaro: un osservatore puro. Come lo era Pier Vittorio Tondelli, autore che gli è caro e che, quando gli chiesero se osservare e basta non fosse un modo irresponsabile di scorporare la letteratura dalla tensione ideale, rispose che l’impegno dello scrittore, per lui, consisteva nel testimoniare, attraverso il linguaggio, la sua vita, quello che vedeva intorno a sé e, soprattutto, “gli spostamenti collettivi dell’intensità”.
Questo pezzo è l’ultima parte del racconto che Brondi fa del modo in cui il presente agisce sulla nostra intensità e in particolare su quella della generazione per la quale non c’è stata linearità ma deflagrazione, e dev’essere stato per questo che s’è limitata a sognare la normalità, a porsela come massima ambizione sin dall’età in cui, di solito, la si rifugge. E adesso? Adesso che abbiamo trentacinque anni o quaranta, abbiamo l’età di “Compagni di scuola”, l’età in cui la radicalità si ammorbidisce e si diventa borghesi in tutto, dal voto alle scarpe, a noi che d’essere individualisti e mediatori è stato insegnato da quando eravamo in culla, che succederà? Forse diventeremo, per la prima volta, intransigenti, liberi, radicali, ragazzi (non adolescenti: ragazzi). Nuovi libertini.
Riprenderemo la chitarra, penseremo a che errore sia stato vendere il basso su eBay ma ci solleverà l’idea che sia finito su un’isola greca, capiremo che siamo animali “senza istinti quindi ancora peggiori”, cammineremo nei boschi, ci infileremo nei monasteri, non ci faremo fregare dalla salvezza, ai monaci diremo “giù le mani dalla mia anima” e sul palco diremo che siamo imperfetti e irrisolvibili. Sono le cose che Brondi racconta, dando del tu a un amico che ritrova tornando a casa, in questa canzone non canzone che dice della spaccatura cui ci si trova crescendo e che ti cambia e ti condiziona a seconda del tempo.
A idee, ideologie, battaglie e chitarre abbiamo guardato con diffidenza da bambini e da ragazzini, forse ci siamo pentiti, come capita sempre agli adulti, ma forse, ora che s’è rimpicciolito l’inessenziale in cui vivevamo e tutto s’è fatto più estremo, quel pentimento ci rinsalderà a un dovere e non a una nostalgia, ci porterà a costruire sul campo dopo la battaglia, per trasformarlo in un paesaggio, dargli un orizzonte, una luce, un cielo, non un’ambizione.
Costruire sarà un dovere, un modo d’amare le cui ragioni e i cui modi sono tutti in questo pezzo per metà “Incontro” e per metà “Culodritto” di Guccini. Siamo qualcosa che non resta e abbiamo ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare.
Sally Rooney ha avuto ragione quando ha raccontato che non sappiamo amare, ma Vasco Brondi ha più ragione ancora quando dice che “siamo sempre stati pieni d’amore, pieni da scoppiare”.