Cantare l'incertezza. Intervista a Franco 126
Ha con sé un taccuino su cui appuntare le parole giuste per descrivere le sfumature fra verità e menzogna. E ha un sogno: “Restare, anche fra 30 anni”. Intanto è in cima alle classifiche con "Multisala", il suo ultimo album
Franco sostiene che si tratti sempre di andare sott’acqua e poi riemergere: “La prima volta che ho pensato a cosa volessi fare davvero nella vita stavo nuotando in piscina. Dopo essermi iscritto alla facoltà di Matematica e a quella di Informatica era il momento di ammettere che le cose andavano malissimo e che gli ultimi due anni li avevo letteralmente buttati. Feci una telefonata a mio padre, un figlio del sessantotto, un signore per cui le opzioni sul tavolo non erano poi molte: o si stava sui libri e ci si impegnava oppure si andava a lavorare. Io gli dissi che di studiare non avevo più voglia. Papà ci restò male. Avrebbe voluto che io e mio fratello diventassimo medici. Lui insegna Filosofia, io scrivo canzoni: le cose non vanno mai come devono andare e non sono mai come te le aspetti”.
Franco126 si chiama Federico Bertollini, ma non c’è più nessuno – “forse solo mia madre”, dice – che lo chiami ancora così. Le ragazzine gridano dai motorini: “Grande Franchino” e a lui – che non è un divo e non aspira a diventarlo: “Che mi riconoscano per strada è un puro caso di solito non mi si nota” – non dispiace perché del suo vecchio nome è rimasto solo una riga in bianco e nero sul documento d’identità. Come in quella che Franco considera la più bella canzone italiana mai scritta sui sentimenti, “Gioco D’azzardo” di Paolo Conte, si “trattava d’amore” anche tra lui e la musica. Un disco d’esordio folgorante da solista, “Stanza Singola”, e il secondo album uscito in questi giorni per Bomba Dischi, “Multisala” primo in classifica già da venerdì, disegnano un’ambizione quieta ma meditata: “Restare, anche tra trent’anni”. Quindi molti rimandi più o meno impliciti alla letteratura, alla vita vista da eterno Chatwin fuori latitudine pronto a fotografare l’istante: “Cammino molto, a volte per chilometri senza neanche rendermene conto” a Califano, al principe Francesco: “Il fatto che De Gregori non scriva canzoni da otto anni e che alla domanda ‘perché?’ risponda solo ‘perché non ho niente da dire’ lo trovo straordinario, enorme”, ma nessuna concessione allo slang della contemporaneità perché, dice, “un conto è la citazione estemporanea, altro è basare tutta la tua poetica su un citazionismo un po’ furbesco. Devi assicurarti che ciò che canti non perda efficacia nel tempo. La mia aspirazione è la stessa che avverto quando ascolto un disco di De Gregori di trenta o quaranta anni fa. Sembra scritto oggi, non sente il peso dei decenni ed è per usare una parola eccessiva, eterno”. Franco ha con sé un taccuino. Lo tiene nella tasca al pari delle cose preziose che non hanno bisogno di fari né vanno ostentate. Ci appunta frasi, lampi, visioni. Le parole sono importanti: “Perché non mi scordo mai che faccio un mestiere in cui devono essere belle e suonare in un certo modo, anche quando insegui l’astrazione”. Quindi ha lavorato a lungo per far prevalere “significato e immagine” e non ha intenzione di fermarsi o smettere di osservare. Lui osa, rischia e vince. La critica plaude. Il pubblico lo segue. La strada è comunque molto lunga. “Non so se vinco perché vincere alla fine è un concetto demenziale, ma provo a essere sincero e tra quel che canto e quel che sono, la differenza non è molta”.
Alti e bassi, in ogni caso: “Perché altrimenti non si potrebbe inventare e perché è così che è la vita: anche se crescendo diventi meno assolutista e capisci che pretendere che le relazioni umane non siano un ottovolante è illusorio, niente alla fine placa la sete di trovare risposte che non possono mai soddisfare completamente”. A Franco piacciono le sfumature. Gli interstizi. Le pieghe. Le ombre. Le notti che si confondono con l’alba. Le birre. Le Polaroid in cui i colori, dopo qualche mese, assumono nuove cromìe. Ma più di tutto, forse, a Franco piace l’incertezza. “Il sole batte forte sopra i tetti in piena estate, ma si sente che hai l’inverno nella voce” come canta, perché per uno che ammette di ricordare sempre ciò che dovrebbe dimenticare e trascura quello che dovrebbe ricordare l’equilibrio è complesso come un parcheggio in pieno sabato a Trastevere. In quei vicoli, sugli scalini di Viale Glorioso, nel passaggio quasi osmotico tra le taverne di un quartiere votato al baccanale e i silenzi alberati di Monteverde, Franco detto Franchino vive da sempre. Se gli chiedi di definire Roma: “La mia città, uno spettacolo a cielo aperto di cui mi sembra incredibile che qualcuno possa lamentarsi”, parla di gabbiani e pappagalli che proliferano, di amici con cui passare il lockdown rivedendo vecchi film, angoli in cui non si stanca di passare “anche due volte al giorno” e nuove scoperte. Ogni tanto mente: “Il giusto. Cerco di dire meno balle possibile e mi piacerebbe credere che due mezze verità facciano una bugia o viceversa. Che alla fine, tra menzogna e realtà, sia una soltanto una questione di sfumature, di addizioni, di sottrazioni, di scelte e anche di opportunità”. Non tutto è esprimibile dice Franchino e ci sono cose che non è urbano rivelare: “Come in ‘Pensavo fosse amore e invece era un calesse’, alcune verità andrebbero taciute. Gli amici accorrono da Troisi per informarlo che la ragazza lo tradisce. E lui parte con un apologo morale che toglie il fiato. Annulla la carità pelosa del soccorso e ribatte spiazzando il gruppo: ‘Perché siete tutti così sinceri con me? Ci sono cose che uno non vorrebbe mai sapere’. La penso nello stesso modo. Con gli amici ci chiediamo spesso ‘e se la ragazza di quell’amico gli mette le corna e noi lo sappiamo dirlo all’amico è un atto di egoismo o di altruismo?’”. Franchino vorrebbe conservare “le menzogne per le cose importanti” e continuare a esplorare senza certezze.
Quando era adolescente, giura, erano più solide: “Non saprei dire quando quelle che covavo ieri abbiano iniziato a frantumarsi, ma so che quando finisce la scuola, inizi a lavorare e ti rendi conto di non essere il centro del mondo inizia il secondo tempo della partita”. A Franchino del calcio interessa poco o nulla, ma per un pezzo nell’ultimo album, “Maledetto tempo” si è liberamente ispirato all’addio di Totti. Franco non esclude niente a priori, ma con la stessa attitudine non è incline ad abbracciare qualcosa per sempre. Le storie di ieri, ad esempio, le ha abbandonate. Per quattro giorni alla settimana, fino a non molto tempo fa, lavorava part time. “Riparavo telefonini e per l’altra metà del tempo preparavo colazioni in un albergo a due stelle di un’amica, l’Hotel Pomezia, apparecchiando, sparecchiando e servendo caffè e cappuccini”. Per essere nato nel 1992, ha già imparato un segreto importante: non si lamenta mai. “Non ne avrei una sola ragione e probabilmente mi annoierei da solo. Ho qualche pregio nascosto e moltissimi difetti. Sul lavoro poi sono un vero rompicoglioni. Pedante, indeciso, perfezionista”. L’età, argomenta, è comunque un tema ricorrente: “Crescere mi ha fatto conoscere la direzione che dovevo prendere e capire cosa stavo facendo. Da ragazzo ero vittima delle mie emozioni, adesso sto meglio e sono più sereno di quando avevo vent’anni anche se in un certo senso i miei vent’anni mi mancano perché a vent’anni non c’era nulla che non fosse romantico. Ci piaceva soffrire, essere gelosi, disperarci. Era tutto fortissimo e a volte assolutamente ingestibile. Non sapevamo niente e dovevamo ancora fare tutte le esperienze del mondo. Ora certe emozioni non prendono più allo stomaco ed è ovvio che il desiderio di tornare ad allora, ma con la testa di oggi, ogni tanto si riaffacci”.
Tra l’Hotel Pomezia e gli album in studio il mosaico si è andato completando e “il tempo non lo puoi fermare”. Quindi Franchino marcia dritto e a volte ride “in faccia alla malinconia” anche se, dice, “a tradimento può succedere il contrario”. “Sempre meno” aggiunge, merito dei passi in avanti e della sicurezza. In “Multisala” vede “una prosecuzione filologica del mio primo album, un disco più ilare e meno cupo, uno sguardo più preciso sulla vita e sul mondo”. La cena, la prima dopo molto tempo, nel bel ristorante hopperiano di Matteo Santucci e Tommaso Paradiso dall’acronimo “Tomà” di immediata lettura, gli dà l’occasione di parlare dei colleghi. Di Ornella Vanoni: “‘Arcobaleno’, inserito nel suo ultimo lavoro, è un pezzo bellissimo che mi ha commosso. Non mi capita quasi mai”. Di Calcutta: “Sono felice che sia intervenuto in ‘Blue Jeans’, la sua voce nel verso che intona era molto più adatta della mia” o di Paradiso stesso. Gli aveva già chiesto di partecipare in “Stanza singola” e non era un invito di cortesia. Il “fratello maggiore” del 1983 gli piace molto: “Tommaso è sincero, generoso, vitale, coerente, pieno di talento. Non conosce calcolo e per me non calcolare a tavolino è un pregio di valore non quantificabile”. Lo considera un amico, una parola che per Franchino ha un’importanza quasi sacrale. “E’ con gli amici che arrivo a ragionare su aspetti che non potrei affrontare né con i parenti né con le ragazze”. L’amico storico di Paradiso, Santucci, rimasto come l’ultimo giapponese o come un personaggio di Buzzati per un intero anno a guardia di un sogno che covava da tempo anche se il tempo sembrava essersi fermato porta sul tavolo una lattina di alici del Cantabrico: “Si mangiano da qui, conservano il sapore”. Poi si ferma con Franchino ed esplora altri sapori. Gli racconta una storia sublime: “Te lo ricordi Ennio Fantastichini? Una volta, era la vigilia di Natale, lo vedo in fila alla Feltrinelli. Ha comprato venti libri e armeggia con le mani nei pressi delle tasche. Ha dimenticato il portafoglio, è in lieve imbarazzo. Non può pagare e la cassiera gli suggerisce di lasciare i volumi e di ritornare. Ho alzato la voce indignato e ho tuonato: ‘Che paese è diventato quello in cui non si fa credito a Ennio Fantastichini?’”. Franchino ride. Ama gli idealisti, le piazzate a buon fine e non teme gli inciampi. Le salite non lo preoccupano: “Le cose belle sono sempre difficili” e il domani, meno ancora.
“Per arrivare alle 10 canzoni di ‘Multisala’ ne ho messe da parte cinque. Originariamente erano 15 e forse un giorno usciranno”. C’è un certo modo di non sembrare e Franchino forse non voleva mostrarsi logorroico: “E’ importante che l’album, anche all’ascolto, abbia una sua integrità. Io se vedo un disco con troppi brani mi spavento”. Con Alessandro Ricci, Davide Caucci, Christian Briziobello, Emmanuele Di Giamberardino e la crew picaresca di Bomba dischi – “che non a caso è diventata la più importante realtà discografica indipendente in Italia” – il rapporto è felice e dialettico. Infinite riunioni, discussioni: “Sono stato sfiancante e chiunque altro mi avrebbe probabilmente mandato a fare in culo”. E stima tangibile: “Abbiamo una visione comune. Producono, a volte in perdita, solo le opere che gli piacciono davvero. Una libertà e un lusso che le major non immaginano neanche di permettersi”.
Tra i lussi che Franchino invece si consente c’è quello dell’ascolto. Gli altri cantautori ad esempio: “Perché le forme d’arte derivano da ciò che già esiste. Più ascolti e leggi e più ti arricchisci. Ispirarsi non è reato, ma non lo è neanche copiare perché musicalmente siamo la somma di tante cose esattamente come siamo la somma del contesto in cui cresciamo e dei genitori che abbiamo avuto”. La politica, a differenza della pretesa fedeltà degli amati cantautori del tempo che fu e dell’inclinazione di certe albe di maggio in Piazza San Giovanni, a Franchino non interessa. “Non vedo la ragione di schierarmi o di dire come la penso, perché dovrei?” e l’unica politica che gli interessi è cercare ancora, non accontentarsi e non fare, come capitava al Francesco Pannofino di “Boris”: “Le cose a cazzo di cane. Diceva così, no?”. Diceva così.
Nella Multisala il regista è Franco126, ma non si aspetta apologie: “Perché il diritto di critica è sacrosanto” né approvazioni a largo spettro: “Che le mie canzoni non possano piacere a tutti è persino ovvio e a volte, fino a quando non trovo la quadratura esatta, non piacciono neanche a me. Sono ipercritico e non saprei indossare altri panni, ma a un certo punto tiro una linea e agisco perché andare avanti è la cosa più importante di tutte”. Mentre lo dice, ci crede. Non è il Gian Luigi Rondi infilzato da Pasolini in una storica quartina: “Sei così ipocrita, che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso/ sarai all’inferno e ti crederai in paradiso”, ma solo un ragazzo nato il 4 luglio che ha piantato stelle e strisce della sua bandiera in un territorio che gli somiglia. Tra un’invenzione e l’altra, Franchino ha imparato a stare da solo: “C’è voluto tempo. Mi piace il silenzio e mi piace anche la solitudine. Immaginare una canzone non è un percorso piano. Attraversi qualche momento di crisi, ti chiedi se stai andando nel verso giusto, ti poni degli interrogativi e cerchi ossessivamente l’alchimia perfetta. Monti, smonti, è quasi un lavoro da manovale”. Traducendo: si chiamano guai: “Cerco di starne alla larga, ma come tutti mi ci trovo spesso in mezzo” perché anche se Franco non sa come sia finito qui e a volte gli pare di essere “entrato già a metà del film” basta che “il tempo corra sui fili del tram”. Lo segui con lo sguardo, lo vedi vibrare e alla fine, proprio come deve essere in una bella canzone, dietro i baffi e sugli scalini della sua città: “Il giorno passa senza salutare”. E’ la sua sicurezza. La sua coperta di Linus. Quello che detto in linguaggio “franchesco”: “Mi fa volare”.