Non è più tempo per la musica diaristica, Vasco Brondi ci mostra l'universo
Da “Paesaggio dopo la battaglia” ai Coldplay c’è voglia di galassie
A guardare fuori siamo abituati poco e male. Lo sono anche la maggior parte dei nostri artisti, i soli capaci di farci scavalcare le staccionate, portarci lontano da noi, che sia sopra, verso le stelle, o sotto, verso il centro incandescente della terra, forse dell’universo. Sì, l’universo. Il grande assente dalle narrazioni, a meno che non siano distopiche, hollywoodiane, fantascientifiche, e dalle canzoni, che per un sacco di tempo, fino all’altro ieri, dicevamo con sprezzo che erano “da cameretta”, pur amandole più o meno segretamente, perché erano belle e ci rispecchiavano, erano ben inviabili a parenti, amici, amanti, erano perfetti prontuari per quando avevamo molto da dire ma non sapevamo come. Le vorremmo sempre, le canzoni ombelicali e l’autofiction, e il grande me che assorbe tutti i te del mondo e si fa universale, pop. Però vorremo anche qualcosa di più: uno sguardo lungo, un’avventura e non una gita, un io e non un ego, un pianeta e non un satellite. Vorremo dei Re. Li vogliamo già. La bizzarria del nostro tempo è che ci rende presuntuosi ma non megalomani. Ci sono soltanto molti mitomani, che hanno sogni brevi e ambizioni sciocche, noiose. A lungo, non è stato tempo per Napoleoni. Sarà ancora così?
Nel suo nuovo disco, “Paesaggio dopo la battaglia”, Vasco Brondi dice: “Evviva, non è più come prima, evviva, forse è ancora meglio di prima”, e si prende la grossa responsabilità di dire una cosa che è vera, anche se è soltanto una speranza. Tutto il disco è una ridefinizione del mondo che abbiamo sotto gli occhi, perché finora lo abbiamo visto poco e male, dalle camerette, dalle città “che ignorano le stagioni” e nelle quali perdiamo il senso della realtà, ed è un racconto delle nuove prospettive da cui potremo guardare, delle cose da inventare, da fare, da onorare. E’ un disco che parla di universo, che guarda oltre le persone, le racconta unite e non separate dal creato, dice la simbiosi possibile, che poi è il solo modo che avremo di sopravvivere: elaborare un pensiero della vita che ci immagini in una relazione simbiotica e sinergica con lo spazio intorno e noi, una relazione che vada a sostituirsi a quella che abbiamo istruito finora e che era basata sullo sfruttamento e che per questo prevedeva una separazione netta dell’uomo dal paesaggio, dai cicli naturali, dai deserti, dal mare. E’ un disco, questo nuovo di Brondi, che all’universo ci riallaccia come abitanti, non esploratori. Ci dice e ci mostra che il mondo è parecchio più vasto se smettiamo di invaderlo, ci dice che sì, siamo minuscoli e abbiamo 26 mila giorni da vivere, ma proprio per questo dobbiamo farlo da animali, da ospiti.
L’anno scorso temevamo che dalla pandemia sarebbero venuti fuori solamente dischi e libri diaristici e claustrali, invece la musica s’è affacciata sull’altrove, sta riprendendosi un compito, una poetica molto politica e ci sta portando fuori, ci sta mostrando che potere abbiamo, a cosa siamo connessi: alle galassie, ai vulcani, agli oceani. “The boy is electric and you’re sparkling like the universe connected”: è un verso della nuova canzone dei Coldplay, che l’hanno presentata durante una diretta streaming con Thomas Pesquet, astronauta, collegato dalla Stazione Spaziale Internazionale. Il pezzo si chiama “Higher Power”, che è un bel modo di intendere la musica, forse il più corretto: un potere superiore, la lingua che ci farà intendere con gli alieni, su una pista da ballo improvvisata, tra i container, come nel video dei Coldplay, con Chris Martin che balla come se fosse il 2000 e anche un po’ il 3000.
P. s. La scorsa estate, Cremonini ha fatto un video su una canzone di addio, “Ciao”: volava nello spazio, con la terra alle spalle, minuscola.