L'intervista della domenica
Ragazza dagli occhi caleidoscopio
Sì, viaggiare, l'immaginazione, i mappamondi, le piramidi Maya, Walter Bonatti, Mandela, il teatro canzone, gli artisti in famiglia. Conversazione con Margherita Vicario
Sulla copertina del suo ultimo disco, Bingo, Margherita Vicario sbuca fuori da un sipario blu, con un braccio lo tiene stretto dietro la schiena, come un telo per la doccia, con l’altro lancia una manciata di coriandoli. Il teatro per lei è festa, casa, carnevale. E canzoni. Non c’è un suo pezzo che non abbia una drammaturgia, una scenografia e molte voci dentro, che canta quasi sempre e quasi tutte lei.
Nella sua musica c’è il mondo. Visto, da vedere, immaginato, forse migliorato. Personale e universale. In ogni pezzo c’è sempre un altrove e un ponte per raggiungerlo, una cartina, il suono dei miscugli e degli incontri. Dal Vaticano fino ad Ankara, Brasilia Copacabana ceni a Milano dormi a Tiguana, da Gioia Tauro vai in Guatemala.
Ci sono molte lingue, incluso il greco antico – come Franco Battiato, che è riuscito a cantare il testo originale di un epigramma di Callimaco, ha infilato il greco antico in un pezzo pop. Proprio per questo, Bingo è un disco che può permettersi un efficacissimo encomio delle differenze, specie quelle tra donne e uomini. “Siamo diversi come l’odio e la paura, siamo diversi non ti offendere, non te la prendere”.
Oltre che per la sua musica, ha recitato per il cinema e la televisione, diretta da Woody Allen, Fausto Brizzi, Antonio Manzini. Suo padre è un regista, suo zio anche, e lo era anche suo nonno, Marco Vicario – nel suo ultimo film, “Scusa se è poco”, c’erano Ugo Tognazzi e Monica Vitti. Suo nonno adottivo era un alpinista e un esploratore tra i più avventurieri: Walter Bonatti, che s’innamorò di sua nonna, Rossana Podestà, quando lei e il nonno Vicario si separarono.
Togliamoci subito il pensiero, mi dica qualcosa su questa sua famiglia d’artisti.
Sa che mi stupisce la frequenza con cui mi chiedono di parlarne? Non vengo mica dai Gassman, la mia è una famiglia di lavoratori dello spettacolo. Nell’ambiente, come si dice, il mio è un cognome conosciuto, ma niente di più. A me d’essere famosa per il mio cognome, peraltro, non importa: penso si debba essere famosi per qualcosa che si è fatto, non per come ci si chiama. Credo poi che il successo mi interessi molto relativamente anche perché sono cresciuta in un famiglia dove in molti facevano i mestieri che possono renderti molto noto e questo ha fatto sì che io pensassi alle conseguenze del mio lavoro, non al fatto che non mi avrebbe aiutata a diventare qualcuno. Quello che ho imparato a casa mia è il piacere per le storie. Da piccola ero bombardata da storie, spettacoli, favole, soprattutto da parte della famiglia di mamma, che prima di fare un po’ di cinema, disegnava vestiti.
C’è un verso nel suo disco che dice: "Ho gli occhi tristi, sai, famiglia d’artisti”.
Non prenda le rime troppo sul serio. Nella maggior parte dei casi, non vogliono dire niente di più di quello che si legge, talvolta persino di meno, o addirittura niente. Qui giocavo con il fatto che da bambina avevo gli occhi molto grande e con un taglio verso il basso, che li faceva sembrare sempre un po’ abbacchiati. E questo per dire anche che nelle canzoni le rime hanno una loro precedenza ma non cadono mai per caso. In Pina Colada c’è un verso che dice “parlano inglese francese e cileno”: quando ho lavorato al video, ambientato all’Idroscalo di Ostia, in squadra c’erano due ragazzi cileni.
Questa è quasi magia.
Diciamo che è una coincidenza magica, a me ha soprattutto messo di buon umore. Come quella di Mandela. In quel pezzo mi serviva un nome che facesse rima con padela, e il primo che m’era venuto in mente era Mandela. La canzone parlava di integrazione, e io realizzai soltanto dopo la coincidenza con Nelson Mandela.
Non le dà fastidio quando il pubblico forza le canzoni e le iper interpreta?
No, primo perché mi fido molto di chi ascolta e secondo perché so che il mio inconscio può arrivare molto lontano, in posti che magari, da sola, neppure so vedere: se altri li vedono e ci si fanno portare dalle mie parole, sono contenta. Il mio inconscio, che rispetto moltissimo, d’altronde, non può farmi dire cose troppo lontane da me o così imprecise da venire fraintese e snaturate. Quando dici o canti qualcosa che gli ascoltatori travisano completamente, hai una grossa parte di responsabilità: significa che non ti sei espresso bene. Ed esprimersi bene è difficilissimo, farlo alla perfezione è impossibile, ma tentare di farlo al meglio è sempre doveroso. Io cerco sempre di stare molto attenta, anche perché una rima viene da sola: è lei che alza la mano e si prende il posto nella canzone, però risponde comunque a qualcosa che dentro di me certamente c’è.
La musica è più importante delle parole?
È semplicemente diversa, fa altre cose, si muove su altre frequenze. Aiuta le parole ma succede anche il contrario, credo che tra l’una e l’altra ci sia un rapporto di mutualità stretta che chi scrive canzoni deve imparare a osservare. Per entrambe, poi, la forma è sostanza. Devo ammettere però che la musica arriva più in profondità delle parole e quindi può aiutarle sia a scavare che a essere meno dolorose. I miei testi più taglienti sono sempre accompagnati da una musica allegra, sorridente: non lo faccio per edulcorare niente, ma perché credo che aiuti a rendere le cose che voglio dire meno irritanti e dolorose, quindi più penetranti. Credo che tutti siamo più colpiti da quello che ci viene detto con il sorriso: ci resta dentro più a lungo. La rabbia svanisce presto, lascia meno tracce.
Il suo disco è autobiografico. E intendo non che racconta i fatti suoi, bensì come lei vede tutte le cose, come la sua vita, le sue esperienze, la sua identità gliene fanno vedere.
Sono una ragazza, anzi una donna, e sono convinta che questo mi dia un punto di osservazione ben determinato e preciso. Ognuno vive delle cose e le vive in modo diverso perché è chi è. Sono convinta che siamo tutti alla pari e non dovrei nemmeno specificarlo (ma sempre meglio farlo, non si sa mai!), ma io sono diversa da un uomo e scrivo in modo diverso da un uomo perché sento diversamente da lui e allora ho deciso di raccontare cosa vedo e sento e vivo, e anche come chi sono mi fa vedere un mondo migliore.
Migliore rispetto a cosa?
A come ce lo raccontano senza dubbio, ma forse anche a com’è. Del resto, il mondo è sempre interpretazione, no? E allora io ho cantato quello che immagino, quello che spero, Roma come vorrei che diventasse, un crocevia di culture accogliente e generoso, capace di cambiare e farsi cambiare da chi arriva da fuori.
Dice a un certo punto che a lei per esser contenta basta un amore e una pina colada. Mica poco. La pina colada fatta per bene è difficilissima da trovare, là fuori si beve malissimo, Sergio Caputo ha raccontato a questo giornale che ormai preferisce farsi un bar tutto per sé a casa sua.
Beato lui! Non so se ne sarei capace anche io. In quel pezzo, comunque, ho parlato del mio lavoro, e di quanto sono soddisfatta per quello che ho realizzato, a prescindere poi dal successo, i soldi. Per me ciò che più conta è l’amore. Tra un conto in banca molto ricco e un bel fidanzato, preferisco il fidanzato. Una bella storia. Ecco, Bingo è anche un disco sull’importanza degli affetti, per me cruciale.
Lei crede che abbiano ancora senso i concept album?
Il mio primo disco lo era. Ed era teatro canzone, quindi ogni pezzo era legato alla storia di una ragazza, raccontava dieci giorni della sua vita, da quando era stata lasciata a quando poi incontrava un altro. Vengo dal concept album. Però la fruizione della musica è cambiata e credo che un artista possa comunque dare un’identità forte a un disco i cui pezzi non abbiano una unità narrativa.
È stata una bambina felice?
Felicissima. Ho passato l’infanzia in mezzo alla natura, senza macchine, al fianco di una madre molto fantasiosa. E poi con tutta la famiglia andavamo continuamente a teatro.
È una donna felice?
So a chi chiedere aiuto quando non lo sono.
Come mai il teatro è così importante per lei?
Dopo aver visto uno spettacolo teatrale, mio fratello ha capito una cosa importante, che gli ha cambiato la vita e, di più, credo che gliel’abbia salvata. Io già lo sapevo, all’epoca, che il teatro ti salva la vita, ma non avevo le prove, era una frase retorica, che pure dicevo con grande convinzione. Poi è arrivata la dimostrazione lampante.
Allora è quasi un’ossessione.
No, è che tutto torna, sempre. Come con le rime, gliel’ho detto.
Non ce l’ha un’ossessione?
No. Però ho dei sogni nel cassetto.
Me li dice?
Sono chiusi a chiave.
Allora cosa vuole dal futuro?
Semplicemente, poter non smettere mai di unire canzoni e recitazione.
Il suo pensiero felice?
Quando mi portavano a vedere uno spettacolo, ricordo che ero investita dalla beatitudine che mi sembrava provassero le persone che erano sul palco. Quando poi sul palco ci sono salita io, ho capito che non mi sbagliavo: ci si sente davvero in estasi, si raggiunge uno stato quasi ascetico e hai la precisa sensazione di essere dove volevi. Da bambina rimanevo incantata soprattutto quando mia mamma mi portava a vedere i musical: “Grease” con Lorella Cuccarini lo vidi tre volte di seguito.
Quanti strumenti suona?
Da autodidatta, molti. Pianoforte, chitarra, ukulele. Tutti male. Nell’ultimo gruppo suonavo le percussioni. Ora suono sempre peggio e sempre meno, perché mentre da piccola mi accompagnavo da sola sul palco, ora ho dei musicisti veri. Per fortuna.
Quale di questi è quello più vicino a lei?
Quello che so suonare meno, il pianoforte. Non conosco la grammatica della musica e vado molto a istinto, faccio delle cose semplici, che però poi riescono a tirar fuori una fantasia.Il piano mi ha dato, paradossalmente, molti spazi creativi. Quando scrivo una canzone, però, la maggior parte delle volte parto dalla voce e poi tiro giù gli accordi.
Ghemon mi ha raccontato di averci messo anni a riconoscere la sua voce. E lei?
Ricordo di aver capito quanto era importante per me quando facevo i primi concerti e mi andava via: lo vivevo come un enorme stress. Ci sono alcuni artisti che hanno una identità vocale fortissima. Se tu sei Amy Winehouse, a parte che sei un genio, diventi Amy Winehouse perché hai quella voce. Io invece ho una voce con delle capacità ma meno caratteristiche e quindi l'indagine sul mio suono è più difficile. Sul palco, invece, è tutto più naturale, la voce coincide con te in quel momento, è per forza la tua. In studio è diverso perché stai registrando quello che resterà per sempre.
Poter usare il corpo in questa ricerca la aiuta?
Sì, e abbandonare gli strumenti mi ha aiutata ancora di più. Prima suonavo sempre con la chitarra in mano o con il piano, ora che ho i musicisti no e posso muovermi di più e questo è gratificante. Io ho fatto l’Accademia e il corpo è stato il mio strumento per tantissimo tempo, quindi conosco. Lo vedo anche negli altri artisti, mi accorgo quando uno è a proprio agio e quando no. Stare bene sul palco però non significa per forza muoversi. Ci sono artisti che sono immobili sul palco e sono stupendi, magnetici. Il corpo comunica a prescindere da te, sia che tu lo sia consapevole sia che no. Io ho studiato quantoe cose può fare e so usarle, semplicemente.
Si sente piccola?
Ma per favore!
Giovane?
Ho 33 anni! Prima ero sempre la più piccola di tutti, ora no. E sono contenta. Sono stata fidanzata per anni con uno molto più grande di me ed ero sempre la più piccola della festa. Ora mi sento una donna e va benissimo.
È vero che non esiste più la critica musicale?
A me sembra che esista. Il punto è che non è influente, non sancisce il destino di un artista.
E questo è bene o male?
Diciamo che non ne sento la mancanza. E non perché credo che gli artisti non siano criticabili. Anzi. Dopotutto, siamo sotto pressione il doppio perché il rapporto con il pubblico è diretto, non è mediato, non c’è qualcuno che ci aiuti a farci capire.
Non pensa che l’ininfluenza della critica peggiori gli standard qualitativi dei musicisti?
No. Mi porrei un altro problema: moltissimi artisti fanno dischi sempre uguali, dicono le stesse cose nello stesso modo. Credono che aver trovato uno stile basti a renderli interessanti.
Che stile è il suo?
Quello della ricercatrice!
Maschile e femminile esistono o sono convenzioni?
Esistono e ci condizionano. Ma non sono le uniche verità. Esistono altri generi, altri modi di sentirsi: in fondo, l’identità è anche un fatto interiore.
Quindi si può scegliere?
Sì, come tutto. Mi piacerebbe però che ricordassimo più spesso come la società che abbiamo intorno, sempre più invadente, condiziona e determina quelle scelte. Non esistono mele marce, ma persone per le quali gli effetti delle pressioni sociali si sono trasformate in disturbi.
In quale identità si riconosce?
In quella femminile. Perché queste domande vengono fatte sempre e solo alle donne? Che palle. Alla fine, che siamo ancora una minoranza è dimostrato anche da questo.
Perché continua a chiedermi se ha risposto bene?
Sono terrorizzata dalla semplificazione e non sono sicura di riuscire a trasmettere pensieri complessi diversamente da come faccio di solito, ovverosia in versi e musica, che hanno la loro ambiguità e consentono di dire e ragionare senza asserire.
Quali sono i suoi piaceri più carnali?
Il risolatte. Le porcate gastronomiche. E poi sciare tutto il giorno, tornare a casa e stare davanti al camino e riposarmi. Mi piace quando il corpo ha lavorato, ha faticato e posso poi gratificarlo con il riposo e con una cena.
Ma lei è tranquilla o esagitata? A vederla sul palco si direbbe che è un folletto, poi però mi dice che le piace poltrire.
Sono pigrissima.
Non avventuriera?
Si figuri, ho anche paura anche degli animali, riesco ad accarezzare solamente i cani, i gatti già mi spaventano. Amo le poltrone di velluto. In campagna mi piace andare non per fare scampagnate, ma per starmene davanti al fuoco a mangiare caldarroste.
Quindi a Walter Bonatti non ha rubato un po’ di spirito?
Sa che quando sono nata, lui e mia nonna se l’erano filata in Patagonia e lei chiese a un prete missionario italiano di andarla a cercare per avvisarla della mia nascita: gli disse che aveva dato il suo numero alla nostra famiglia, che avrebbe telefonato per annunciare la mia venuta al mondo, che era imminente. E quel poveretto lo fece.
Le piace viaggiare?
Moltissimo. Ma l’ho fatto poco. Recupererò.
Dove andrà non appena si potrà viaggiare senza rotture di scatole pandemiche?
A vedere le piramidi maya in sud America. Il mio fidanzato vuole andare in Giappone, però. Sto cercando un compromesso.
Temo sia introvabile.
Lo penso anch’io, quindi andremo in Sud America.