di nuovo al Barbican
L'inno alla gioia inglese
Il distanziamento musicale e il ritorno degli applausi. Viaggio nella rinascita dell’Orchestra Sinfonica di Londra
I musicisti della London Symphony Orchestra si sistemano – distanziati e per lo più con la mascherina – sul palco che hanno chiamato casa per quarant’anni, ma dal quale non si sono potuti esibire davanti al pubblico per i quattordici mesi di pandemia. Fino a oggi pomeriggio: sempre distanziati, i primi spettatori dell’orchestra prendono posto con cautela alla Barbican Hall. Dopo tutto questo tempo senza potere ascoltare la musica dal vivo, il suono degli accordi fa venire i brividi. “E ora, eccoci qua”, spiega il direttore d’orchestra Sir Simon Rattle: “La LSO ritorna al Barbican, con il pubblico. E tutti noi continuiamo a dire: o mio Dio, quanto ci è mancato”.
La direttrice generale dell’orchestra, Kathryn McDowell, non sta nella pelle. “Pensavo che questo momento non sarebbe mai arrivato, e invece siamo qui. Vedere tutte queste facce tornare al teatro è una grande emozione”. Eccoli qui, gli spettatori. “Non potrei essere più eccitato”, dice Padre Martin Clarke che, assieme alla moglie Angela, ha viaggiato per settanta miglia da Mersea, l’isola più a est del Regno Unito. “Siamo venuti per ascoltare questa musica”, dice Angela, “e per vedere Simon Rattle. Ma a essere onesti, dopo tutto questo tempo, saremmo venuti per ascoltare qualunque cosa”.
L’orchestra ha scelto l’avvilente opera di Gustav Mahler, “Das Lied von der Erde” – Canzone della Terra – per il suo primo concerto trasmesso via streaming la scorsa settimana da una sala vuota. Ma stasera, per festeggiare la rinascita dopo il Covid, “abbiamo bisogno di pura gioia” e suoneremo la musica di Britten e Fauré, e poi le effervescenti Danze Slave di Dvoøák. L’altoparlante trasmette un avviso robotico: “Bentornati al Barbican. Per la vostra e sicurezza —”. Ma il messaggio dell’annunciatore, impassibile e confuso, e la sua litania di regole vengono annegate da un applauso fragoroso. Rattle sale sul palco: “Signore e signori, non parlo mai prima di un concerto” ma in questa circostanza “devo infrangere la regola di una vita. Quel suono che fate con le mani, quanto ci è mancato. È tutto molto eccitante, e piuttosto emozionante. La prima opera – prosegue Rattle – sarà ‘La guida del giovane all’orchestra’ di Britten perché pensavamo che, dopo 14 mesi di astinenza, avreste bisogno di ricordarvi cosa sono questi strumenti!”. Alza la bacchetta, inizia l’incantesimo, e comincia la musica.
Per la LSO la strada è stata tortuosa, e le ultime due settimane molto lunghe. Il loro ultimo concerto risale al marzo 2020, quando l’orchestra ha suonato sulle note delle desolanti sinfonie 4 e 61 di Vaughan Williams. Quella notte la Gran Bretagna è entrata in lockdown. L’orchestra inizialmente ha riposto gli strumenti, poi si è trasferita in una chiesa sconsacrata, LSO St. Luke’s, per l’inizio della fine dell’isolamento, a cui il Foglio ha avuto il piacere di assistere. Tutti i protocolli sono stati rispettati: il mio privilegio è stato soggetto ai rigorosi tamponi RT-PCR ‘sputum’, che sono stati offerti dall’azienda DnaNudge, che ha trovato un modo innovativo per finanziare le arti.
Nel frattempo, sono sorti nuovi ostacoli musicali. Ho avuto la fortuna di assistere a una delle prime esibizioni post lockdown alla Scala lo scorso ottobre – si trattava dell’Aida di Riccardo Chailly. La distanza tra i musicisti e il coro ha cambiato il paesaggio sonoro, e questo ha funzionato bene per un’opera monumentale come il capolavoro di Verdi. “Ma noi suoniamo diversamente, separatamente”, dice Rattle. “Tutto arriva in ritardo di una frazione di secondo – dobbiamo gestire lo spazio in un’orchestra, lo spazio tra i musicisti. La gente manda dei segnali al vicino, che però è più distante. Credo che ci si guardi molto di più. La cosa più difficile è stata l’apertura de ‘Le Nozze di Figaro’, che necessita di una precisione assoluta, è tutta un bisbiglio, un sussurro lungo un corridoio. Questo è stato quasi impossibile con un’orchestra distanziata, ma i musicisti stanno imparando a farlo; devono approcciarsi a questo nuovo modo di fare musica”.
Rattle aggiunge che “siamo passati da una pandemia – persone che muoiono, persone attaccate a un ventilatore – alle prove generali di un concerto con il pubblico. Sono stupito dalla rapidità con cui la LSO è riuscita a mettere su tutto ciò: queste persone sono sempre pronte ad affrontare il prossimo ostacolo ma ce ne sono stati pochi, forse nessuno, di questa portata. Più o meno, è stato come non essere in grado di vedere la tua famiglia, perché la LSO è questa cosa qui”. Maxine Kwok della prima sezione di violino riflette che “la più grande difficoltà è stata non vedere l’orchestra. Da quando ne sono stata privata, ho capito che l’orchestra mi scorre nelle vene”. La fagottista Rachel Gough pensa che “se esiste l’epigenetica, e credo di sì, allora la nostra comune appartenenza alla LSO ha cambiato il nostro DNA. Fa parte della nostra vita, e del nostro modo di essere”.
Ogni musicista ha reagito in modo diverso al lockdown. “Io vivo al Barbican”, spiega Kwok, “e tutti i giorni guardavo la sala chiedendomi: quando torneremo? Suonavo nel giardino della chiesa di San Bartolomeo a Smithfield ed era molto piacevole, i vicini ascoltavano dalle finestre e uno di loro mi ha detto che sua madre era morta di Covid. Non era stato in grado di suonare al suo funerale, e io ho suonato al posto suo. Così siamo diventati amici”. “Ho imparato a guidare il motorino”, dice Gareth Davies, il flautista gallese. “È una cosa che ho sempre voluto fare. I motociclisti erano amanti della musica classica, quindi abbiamo trovato un accordo: se avessi passato il test, avrei suonato per loro. Mi sono ritrovato su una pista a fare il primo concerto solitario del lockdown: l’opera era ‘Syrinx’ di Debussy, e ho indossato pantaloni di pelle, un look alla Jim Morrison!”. Tuttavia, il Covid ha nascosto un’altra difficoltà per l’orchestra, potenzialmente anche più dannosa: l’inquietante fantasma della Brexit. L’orchestra ha un’anima internazionale dato che gran parte dei musicisti sono stranieri, e soprattutto europei, e il 40 per cento dei ricavi nell’era pre Covid derivava dai tour all’estero, sopratutto in Europa. “Ci sono già molte sfide da affrontare con l’allentamento del lockdown”, afferma McDowell, “ma la Brexit è un grande ostacolo ulteriore”.
Il responsabile alla logistica Alan Goode sostiene che “siamo usciti dall’Unione europea nel mezzo della pandemia e l’impatto è stato nascosto dal Covid. I due problemi si alimentano a vicenda: la pandemia ha ridotto i fondi per la cultura e per la musica in tutta Europa mentre la Brexit ha aumentato il costo di raggiungere e fare tour in Europa, quindi si è aperto un abisso”. Secondo Rattle, “dobbiamo trovare un modo per continuare ad andare in tournée per sopravvivere. Ovviamente siamo riconoscenti per i fondi pubblici che riceviamo, ma sono solamente una goccia nel mare rispetto a ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. L’anno scorso avremmo dovuto trascorrere 99 giorni in tournée. Come funzionerà da ora in poi? Non possiamo tornare indietro. Il Covid ha nascosto l’impatto di tutto ciò, e solo ora stiamo iniziando a capire la portata di questi problemi”. Tra questi ci sono degli aspetti molto pratici. “E’ tutto così maledettamente assurdo”, spiega Sir Simon, “L’organizzazione dei tour deve essere stravolta: il camion deve tornare in Inghilterra dopo due fermate; non possiamo viaggiare da un paese all’altro”.
Rattle ci tiene a sottolineare una priorità e un marchio di fabbrica dell’LSO: i programmi di formazione musicale, specialmente nelle aree più povere. “Una delle cose che più mi preoccupano della Brexit è che non ci consentirà più di fare ciò che l’LSO ha sempre fatto meglio di chiunque altro in Europa: puntare sull’istruzione e sull’impegno sociale”, ha detto Sir Simon. “Abbiamo sempre lavorato con dei neofiti della musica la cui vita, in alcuni casi, è stata cambiata per sempre dalle nostre sinfonie. Questo fa parte della nostra identità, e sarà più difficile continuare a svolgere questa missione da ora in poi”.
Goode spiega che l’orchestra “ancora deve capire cosa succederà a Dover – ci vorranno due giorni e mezzo per completare un attraversamento che prima impiegava solamente un giorno. Tre giorni di qui, tre giorni di là, poi dobbiamo mandare indietro il camion e usare un mezzo locale. Il fatto è che dobbiamo adattarci, a prescindere da come cambierà la situazione”. Poi, tutto d’un tratto, ritorna al presente. “Ma siamo di nuovo al Barbican. E’ da un anno e mezzo che non vedo la mia scrivania nell’ufficio dell’LSO. Le foto dei miei figli sono ancora lì, ricoperte di polvere. Ma quando è arrivata l’orchestra stamattina: wow, è stato come rimettermi le mie scarpe preferite”.
Nel suo primo concerto post lockdown al Barbican, l’ultimo a essere trasmesso in streaming senza pubblico, la scelta delle opere non è stata casuale. “Das Lied von der Erde” di Gustav Mahler racconta la “vita umana e la mortalità umana in natura”, spiega Noël Bradshaw, il violoncellista, “ritorniamo alla natura, moriamo con la natura, e di questo dobbiamo prendere atto”. “Perché abbiamo scelto questo programma”, si domanda McDowell, che poi offre una risposta: “In un certo senso, è un modo per guardare indietro a quello che è stato un anno molto difficile per tutti. E per andare avanti. Di cosa tratta il brano? Moriamo, ma fa parte del ciclo naturale. E forse dobbiamo prestare maggiore attenzione agli altri, alla nostra esistenza e al mondo in cui viviamo”. Siamo alle prove generali: Magdelena Kožená, mezzo soprano e moglie di Rattle, indossa uno scialle che si allunga sulle braccia come le ali di una gazza. Il suo canto cristallino taglia l’aria nella sala vuota. I musicisti spesso parlano di momenti alchemici in cui si crea la magia: l’opera di Mahler sabato scorso è stato uno di questi momenti. Perché?
Bradshaw crede che “questo è stato un concerto per noi. Penso che ci sia stata una connessione emotiva con tutto ciò che è successo nell’ultimo anno, una sorta di catarsi; abbiamo suonato insieme, di nuovo al Barbican. E’ stato un esorcismo della pandemia e delle sue difficoltà”. Le luci sul palco si spengono avvolgendo la sala nel buio pesto e, quando si riaccendono, Rattle dice all’orchestra: “In quarantacinque anni di musica ma non ho mai ascoltato una sinfonia così meravigliosa”. “È stata una grande performance”, dice Davies, il flautista, “ma mi è mancato vedere duemila persone che cercano di respirare senza fare rumore, o smettere momentaneamente”.
“Un musicista senza pubblico non è completo”, spiega Rattle, “Noi suoniamo per noi stessi, e per gli altri membri dell’orchestra, sentiamo quello che sentiamo. Ma noi suoniamo in modo diverso per il pubblico, e quella differenza costituisce la performance; è parte di ciò che facciamo”. Il secondo violino David Alberman paragona l’assenza del pubblico a un arto mancante. “Ci siamo preparati a trasmettere il concerto in streaming a una grande platea. Ma in questo modo non riusciamo ad avere quelle sensazioni fantasmagoriche, irreali ma reali, intangibili ma tangibili, che proviamo con il pubblico”. E poi mercoledì sono arrivate le persone.
Dopo Britten, l’orchestra suona la suite Pelléas et Mélisande di Fauré, e a questo punto c’è un momento di profonda riflessione. Non è Mahler, certo, ma la mesta cadenza de” La Mort de Mélisande” evoca inevitabilmente il cataclisma dell’anno scorso. Poi le danze di Dvoøák, e non c’è un momento per respirare. Philip Bremner si alza dal suo posto nella fila J per ritornare a casa a Brighton, da dove è venuto a posta per il concerto. “È stato grandioso tornare ad ascoltarli. Ed è stato un buon mix: durante Fauré tutti avranno pensato alla stessa cosa: all’anno scorso. Poi Dvorák – ed eccoci qui di nuovo, siamo tornati”. “E’ stato emozionante”, spiega poi la direttrice generale McDowell, “tornare a sentire l’impatto del pubblico sulla LSO; sentire quell’atmosfera frizzante nella sala. E’ stato indimenticabile”. La bassista Rachel Gough è venuta in bicicletta dalla stazione di Waterloo a Londra per suonare. “E dopo il viaggio in bici, ho stirato la camicetta proprio per quest’occasione. E sai cosa? Ero davvero nervosa, mentre aspettavo che arrivasse il mio turno. Era da tanto che non suonavo davanti a tutta quella gente”.
Kwok confessa di essere stata “un groviglio di emozioni” nel momento in cui l’orchestra è scoppiata in un applauso fragoroso quando una voce ha annunciato “Bentornati al Barbican”. “Ci siamo guardati l’un l’altro, sia i musicisti che il pubblico, e ci siamo detti: ‘Finalmente siamo tornati insieme’. Ho persino tollerato lo starnuto occasionale o il rumore della bottiglietta d’acqua che cade per terra, anche se abbiamo alzato gli occhi sentendo l’inevitabile rumore dello squillo del cellulare. Oggi l’ho tollerato, perché ero talmente grata di vedere il pubblico”. Il capo della logistica Goode racconta: “Avevamo tutti un gran daffare nel backstage, poi all’improvviso sentiamo un suono che ci distrae da tutto il resto. Tutti si fermano. Di cosa si tratta? Grandine? Pioggia? Ma siamo due piani sottoterra! Era il primo applauso del pubblico che è tornato ad ascoltarci vivo: che suono!”.
Ed Vuillamy è stato per 32 anni reporter internazionale per il Guardian e l’Observer. Il suo libro “Louder Than Bombs: A Life with Music, War, and Peace” è edito dalla University of Chicago Press. (Traduzione di Gregorio Sorgi)