Gli 80 anni della leggenda
E Dylan si fermò a cena
Da apparizione mistica agli eventi più chic, alla confidenza e all’organizzazione in Italia delle sue mostre. Vi racconto il lato meno noto di Bob, una voce fuori dal coro, e invidiata, dell’arte contemporanea
“Jeff puoi ricordarmi il nome della compagna di Bob? Non te lo ricordi perché non lo sai”. Questa fu la risposta lapidaria che mi diede il manager di Bob Dylan, Jeff Rosen, quando mi azzardai a chiedere come si chiamasse la fidanzata del futuro premio Nobel. La mia non era una curiosità da Chi, ma semplicemente una questione di educazione. Da lì a breve Bob Dylan e, appunto, la compagna, sarebbero dovuti venire a cena a casa mia. Mi avrebbe fatto piacere conoscere il nome di lei nel caso avessi dovuto presentarla a qualcuno. Chiaramente era un’informazione classificata, come d’altronde tutte quelle che riguardano Dylan. La sua non è tanto una questione di privacy paranoica, è piuttosto una questione di coerenza e utilità. Chi ha visto uno dei documentari su Dylan ricorderà quando la fan assatanata lo implora di dargli l’autografo e lui, giovanissimo allora, gli chiede: “Perché lo vuoi?”. “Perché ne ho bisogno!”. “Se tu ne avessi davvero bisogno te lo darei”.
A cosa può servire un autografo? A nulla. Dylan aveva perfettamente ragione. Non penso di aver conosciuto una persona più coerente, nel bene e nel male, di Dylan. In tutta la sua vita fino a oggi, quando ha appena compiuto ottant’anni, questo signore non si è mai concesso e non ha mai concesso nulla se era convinto che non ce ne fosse bisogno. Compresa la sua presenza a Stoccolma per ricevere il premio Nobel. Forse c’è la necessità di un discorso quando si vince il premio ma non c’è necessità che il discorso lo faccia proprio chi ha vinto il premio. Infatti lui ci ha mandato l’amica Patti Smith. Tornando al nome della fidanzata io un po’ ne avevo davvero bisogno, o almeno così pensavo. Forse aveva ragione Jeff. Che me ne facevo? L’unica cosa che Bob Dylan ritiene veramente necessaria è la sua presenza sul palco. Allora il fatto che otto anni fa, nel febbraio del 2013, Dylan in persona si sia presentato, prima a Milano, in occasione della mostra dei suoi dipinti che avevo organizzato a Palazzo Reale e poi alla porta di casa mia, rimane per me ancora un mistero e un miracolo. Sicuramente è una di quelle cose che potrò raccontare ai miei nipoti. Dire di avere avuto a cena Bob Dylan è una di quelle cose a metà fra il sogno e la fandonia.
Se non avessi avuto uno sparuto manipolo di testimoni a confermare che non stavo sognando mi rimarrebbe difficile convincere la gente che non sono un mitomane. Ma la cosa ancora più bizzarra fu che Bob Dylan non solo accettò l’invito a cena ma s’intrattenne a chiacchierare con i pochi ospiti mentre, imboccato dalla misteriosa donna che lo accompagnava, mangiò pure qualche cosa. Ora vorrei precisare che l’essere imboccato non era dovuto a qualche menomazione ma al fatto che Dylan per tutta la serata non lasciò mai i guanti che teneva in una mano e il bastone che teneva nell’altra, cosa che gli impediva l’accesso autonomo al cibo. Non era la prima volta che mi trovavo in un luogo privato assieme al cantante. Lo avevo incontrato già due volte nel suo studio di pittura a Santa Monica. Lo studio era nascosto nel retro di una palestra di box a sua volta nascosta nel retro del 18th Street Coffee House dove mi era stato detto di andare alle due di un pomeriggio di novembre. La palestra di box è quella dove Dylan si allena ogni giorno quando non è in tour. Per questo mi meravigliò molto quando, incontrandolo, la mano che mi fece stringere fosse piccola e morbida come quella di una signorina di un dipinto di Watteau. Già in quel primo incontro accanto a lui c’era la signora che poi sarebbe venuta a Milano e della quale, secondo Jeff, Bob Dylan non mi aveva mai detto il nome anche se a me sembrava di sì. In realtà non era veramente la prima volta che incontravo il cantante. L’inizio di questa storia, che porterà Dylan a sedersi su una sedia di casa mia, parte infatti da una cena a casa del gallerista Larry Gagosian che aveva organizzato una mostra con i dipinti di Dylan.
La pittura di Dylan ha molti detrattori. Ma in verità i suoi dipinti hanno una loro qualità. Non sono semplicemente il risultato di un passatempo come quelli di Sylvester Stallone o Anthony Hopkins. Dylan dipinge e disegna da sempre, è uno dei tanti modi assieme alla scrittura con cui racconta la cronaca della sua arte. La cena dove ero stato invitato dopo l’inaugurazione della mostra era praticamente divisa in due emisferi, l’emisfero “tutti” e l’emisfero “Bob”. L’emisfero Bob era sulla terrazza coperta nel retro della casa, dietro alla cucina. A un grande tavolo rotondo sedevano un gruppo selezionatissimo di persone oltre chiaramente a Bob. Il padrone di casa Gagosian, lo scultore Richard Serra, il pittore Richard Prince, le rispettive consorti, ancora una volta la dama misteriosa, forse il manager Jeff e una o due altre persone. Bob Dylan non va in giro con un esercito di guardie del corpo ma sempre con le stesse due persone. Quello che organizza la logistica dei suoi movimenti, compreso il salire e scendere dall’auto, e quello, di dimensioni leggermente più minacciose, che supervisiona il luogo, le vie di uscita e di entrata ma più che altro si assicura che nessuno provi a scattare una foto. Una delle caratteristiche di chi darebbe una gamba e anche un rene per poter essere a una cena dove c’è Bob Dylan è quella, una volta ottenuto il risultato di essere invitato, di far finta di nulla, facendo finta di fregarsene che lì a qualche metro di distanza sta seduto, spilluzzicando un po’ di cibo, il personaggio che io abbia mai conosciuto più vicino a Dio.
Non fraintendetemi, non sto dicendo che Dylan è più importante di Nelson Mandela o del Dalai Lama, ma in termini di persone che lo conoscono è sicuramente più famoso di loro. Anche senza far finta di fregarmene tuttavia la serata, tenuti a distanza da Dylan, iniziava a diventare molto noiosa. Tutti avevamo voluto essere lì ma nessuno veramente sapeva cosa fare. Con il passare delle ore appariva sempre più chiaro che essere stato a una cena con il cantante più famoso della terra avrebbe significato poco per me. Decisi allora di compiere un gesto che in altre circostanze non avrei mai avuto il coraggio di fare. Attraversai la cucina, raggiunsi la tavolata, mi avvicinai a Dylan e porgendo la mano dissi: “Sono Francesco Bonami, un curatore italiano. Se un giorno volesse fare una mostra in Italia mi faccia sapere”. Lui mi guardò senza particolare interesse, come se le parole che aveva ascoltato, mostra, Italia e curatore, non avessero alcun senso. Mugugnò forse un “thank you”, e io praticamente scappai divorato dall’imbarazzo della patetica sceneggiata di cui ero stato protagonista e tornai a casa. Passarono un paio di giorni quando il mio cellulare squillò.
“Sono Jeff Rosen. Bob ha apprezzato molto l’invito dell’altra sera e vorrebbe iniziare a parlare di questa mostra”. Ora è bene sapere che per il mondo dell’arte contemporanea, campo di cui Bob Dylan è totalmente all’oscuro, il cantante è considerato un pittore della domenica. Decidere di curare una sua mostra, a quel tempo, era per me una sorta di piccolo suicidio professionale. In verità il giudizio sulla sua pittura è ingiusto. Dylan paga il fatto di essere Dylan nel mondo molto elitario e intellettuale dell’arte contemporanea, dove tutti vorrebbero avere la fama di Dylan. Non potendo e non riuscendo ad averla, chi si avventuri fuori dal proprio campo viene bistrattato e deriso. Se invece di Dylan il cantante si fosse chiamato Luc Vanderbroots, belga, i suoi dipinti sarebbero considerati capolavori della pittura dei nostri giorni. Certo Dylan, a differenza di un pittore contemporaneo professionista, non dipinge con la coscienza di far parte della storia dell’arte, dipinge da outsider, senza strategie intellettuali o concettuali legate a quello che fa. Non dialoga con quelli che potrebbero essere i suoi contemporanei e in poche parole, questo sì grazie al fatto di essere Dylan, se ne frega. Eppure avere curato una sua mostra, nonostante le facce disgustate dei miei colleghi, non fu per niente una cosa imbarazzante.
Fu forse una marchetta emotiva, ma sicuramente una marchetta che valeva la pena fare . “Gli fai una mostra solo perché è Bob Dylan!”, mi accusavano altri, integerrimi, curatori. Avevano ragione. Era esattamente il motivo per cui l’avevo fatta e per cui la rifarei. Se Gesù tornasse in terra e decidesse di fare l’artista e accettasse di farsi curare una mostra da me, la curerei. Sono occasioni che non si ripetono nella vita. Eppure c’è stata gente che, pur di non darmi soddisfazione, affermava che la musica di Bob Dylan non gli piaceva. Come dire che non ci piace la Cappella Sistina. Ci sono cose che esulano dai giudizi umani e contemporanei. Una di queste è la musica di Bob Dylan. Lo tornai a incontrare una seconda volta a Los Angeles. Questa volta era solo, nessuna signora al suo fianco. Rimanemmo a parlare per un bel po’ nel suo studio, dei suoi dipinti, dei suoi cancelli di ferro battuto che salda da solo pezzo dopo pezzo e che sono vere e proprie sculture. Parlammo del più e del meno ma poi, incredibilmente, mi resi conto che non avevamo più nulla da dirci. Così, come avevo detto altre centinaia di volte ad altre centinaia di artisti, dissi a Bob Dylan che dovevo andare. La visita allo studio era finita.
Ancora oggi mi sembra impossibile avergli detto: “Sorry, now I have to go”. Quando ci rivedemmo fu a Milano. Arrivò nel mezzo della notte a Palazzo Reale per vedere la sua mostra. Dietro qualche pilastro si nascondeva qualche persona che provava a rubare una foto con il cellulare mandato via come una mosca dalla sua guardia del corpo. La sera dopo lo avrei aspettato a cena divorato dall’ansia che era quasi una certezza che non si sarebbe presentato. La lista degli ospiti fu analizzata da Jeff Rosen che l’approvò senza troppe domande, sembravano tutti persone innocue. I due accompagnatori della sicurezza studiarono la casa e si assicurarono che ci fosse una stanza dove, se Dylan lo avesse desiderato, si sarebbe potuto chiudere dentro a mangiare senza essere disturbato. Alla cena s’imbucò una famosa stilista al seguito dell’architetto Stefano Boeri, allora assessore alla Cultura di Milano. La cosa mi fece molto sorridere. Bob Dylan arrivò.
La prima cosa che volle specificare fu che la maggior parte dell’arte che vedeva nelle gallerie non la capiva. Anni prima infatti si dice avesse scambiato una famosa e costosissima “Electric Chair” di Andy Warhol per un ben più comodo divano. Non si chiuse in nessuna stanza. Si sedette in mezzo agli altri ospiti e parlò del più e del meno. Tanto che alla fine della serata non sembrava più nemmeno che quello fosse Bob Dylan. Quando se ne andò io e mia moglie ci guardammo in faccia, increduli. Bob Dylan si era fermato a cenare! Passarono un paio di anni. Dylan tornò a Milano per un concerto. Il suo manager mi telefonò. Bob dopo il concerto avrebbe avuto piacere di salutarmi. Poco prima dell’ultima canzone uno dei suoi assistenti venne a prendere me e mia moglie in sala e ci condusse dietro al palcoscenico. Eravamo in piedi nella penombra. Si aprì un grande portone ed entrò in retromarcia un van. Da dietro un tendone all’improvviso uscì lui, sempre con i guanti in mano, il bastone, il cappello e la giacca di cuoio sulle spalle. “Francesco, un giorno mi dovrai davvero spiegare cosa è questa storia dell’arte contemporanea!”. Poi si rivolese a mia moglie: “Vivete sempre nello stesso posto? Magari più tardi vengo a trovarvi”.
Salì nel buio del van e partì. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto o sentito. Un anno dopo ricevetti una mail di Jeff Rosen che diceva: “Domanda veloce: Bob mi ha detto che gli hai suggerito una penna particolare che dovrebbe usare per firmare i dipinti. Mi potresti dire per favore che tipo e che marca è? Grazie. Jeff”.