il foglio del weekend

Quale allegria

Simonetta Sciandivasci

L’estate post pandemia e il tormentone di Jovanotti e Gianni Morandi. Ma il buonumore è una faccenda seria, richiede impegno e fatica

Finita la cronaca nera (fate gli scongiuri), inauguriamo la stagione della musica leggera, anzi leggerissima. A Sanremo avevamo voglia di niente, avevamo l’ennui, il je ne sais quoi, agivamo sospesi e circospetti, avanzavamo a passo felpato e accorto per non cadere dentro al buco nero a un passo da noi, volevamo canzoni a basso volume, a bassa intensità, e parole senza mistero, allegre ma non troppo. Prendevamo le misure, calcolavamo cosa si era allargato e cosa, invece, s’era ristretto. Attenti a non rifare gli stessi errori, i soliti reati di esuberanza. Elucubravamo sul senso della musica, degli spettacoli, dell’umorismo, del pubblico, della presenza, dell’assenza, della gravitas, della levitas, del lutto, del ricordo, del rispetto, della memoria. E ora eccoci qui, esausti, che camminiamo per strada senza mascherina e appena ci avviciniamo ad altri esseri umani, anche loro a volto scoperto, facciamo per rimettercela, e loro ci fanno segno di non farlo, di lasciar stare, ma che fa, signorina, ma si figuri, ci mancherebbe. Delicati e cortesi, o soltanto sfibrati e ipocriti. Non ci azzardiamo a dire a nessuno cosa dovrebbe fare. Chiediamo: sei vaccinato? Se la risposta è no, diciamo: sei no vax? Se la risposta è sì, diciamo: capisco. E’ vero che capiamo. Come certe suocere illuminate: capiamo ma non condividiamo. 

Dove sono finiti gli psicopatici, i sociopatici, i savonaroleschi delatori? Dove sono il terrore, la sfiducia, il blocco, il trauma, l’accortezza, il buon senso? E’ tutto in pausa. Acceso, ma fermo. Vivo, pronto a saltare come un coniglio. Ci siamo quasi. E’ un quasi riempito di due cose: la stanchezza e la paura della variante delta. E’ un quasi che ci mette le ganasce. Elena Stancanelli ha scritto sulla Repubblica: “A quella festa avrei dovuto leccare i cucchiaini degli altri, baciare chiunque fosse senza mascherina, gridare che ce l’abbiamo fatta, li abbiamo fottuti i pipistrelli. Invece sono tornata a casa abbacchiata, e mi sono messa a leggere tutto quello che c’era da sapere di questa ennesima, maledetta variante Delta”. Solo che non è più tempo d’abbacchiarsi, si deve ripartire, ri-par-ti-re, ri-par-ti-re. Cantano così Jovanotti e Gianni Morandi, di corsa, mangiandosi le parole, come in un vocale velocizzato di WhatsApp. La canzone si chiama “L’Allegria”, e noi la balliamo in salotto, arrancando, andandoci a sedere al primo ritornello, dicendoci che è troppo presto, o troppo tardi, o troppo tutto.  

 

   

Il nemico non è passato e dietro la collina ci sono le varianti del virus, ma pure delle possibilità, dei destini, di come non vogliamo o non possiamo più tornare a essere; ci sono i fantasmi degli errori, delle vittime, degli uffici, dei Natali passati e pure, forse soprattutto, di quelli futuri. Di tutto questo dicevamo l’anno scorso, più o meno di questi tempi, che avremmo assolutamente dovuto fare tesoro. Ora lo diciamo molto meno. Siamo stufi marci dell’apprendistato pandemico e non vogliamo che farne un’auto da fé, vederlo andare in fumo, aiutarlo a dissolversi, sbarazzarcene, e vivere, ripartire, cantare, fare le cicale. Vogliamo uscirne né migliori né peggiori: vogliamo uscirne e basta. Subito. Dimentichi. Rinati. Nuovi. Belli. Belli come un lunedì di vacanza dopo un anno di lavoro. Sani come il primo giorno senza vittime del virus – Roberto Burioni ha scritto su Twitter: “Sono molti decenni che non esagero con il bere. Ma il giorno non lontano in cui alle 18 ci diranno che ci sono stati zero morti per Covid-19 me ne scolo una intera di quelle buone. Giuro”. 


 “Mi serve un indizio stasera in quest’atmosfera, la fine di un’era, mi ci vuole quello che ci vuole quello che ci vuole e un calcio e ripartire, ripartire, ti saluto ci vediamo tra un secolo o un’ora, via dal resto del mondo che va in malora”, cantano Jovanotti e Gianni Morandi, in quello che è stato deciso che sarà il tormentone dell’estate, se non fosse che ha da vedersela con la concorrenza amorale di “Mille”, di Fedez, Orietta Berti e Achille Lauro, che fa così: “Hai risolto un bel problema, e va bene così, ma poi me ne restano mille, poi me ne restano mille”. 


E’ interessante che le due canzoni dell’estate, per ora, siano due inni alla leggerezza, al prenderla come viene e come va, e che ruotino intorno a due signori d’una certa età, uno dei quali, Gianni Morandi, canta con un polso fasciato, segno di un orrendo, gravissimo incidente di qualche mese fa, che però lo rende, adesso, un perfetto testimone di quello che canta: la rinascita. 

 


L’allegria di Jovanotti e Morandi è la naturale evoluzione di quel sentimento bizzarro che animava le dirette Instagram, i concerti sui balconi, gli Zoom durante il lockdown, quando dicevamo che ce l’avremmo fatta e ci impegnavamo a fare le stesse cose di sempre, nella stessa forma, anche se con altri mezzi. L’allegria, allora, significava tenersi vivi accanto all’orrore. Scrivere lettere d’amore accanto al corpo mutilato di un compagno, come in quella poesia di Giuseppe Ungaretti, Veglia, dove lui dice alla fine “Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. 


L’allegria di Jovanotti e Morandi, invece, vuole farci fare tabula rasa. Dare un calcio a tutto e ripartire. Sgomberare il campo dal bigio, i brutti ricordi, il lutto, la perdita, il crollo, appallottolarli e calciarli via, come nella scena finale di Aladin, quando il genio chiude Jafar e Jago, e con loro il male, nella lampada, che poi rimpicciolisce e lancia lontano, lontanissimo, con una mazza da golf, su un altro pianeta, e così tutti possono cominciare a vivere felici e contenti. 
Basta malcontento, depressione, burn out, sociopatia, pandemic fatigue, stress: basta. Un calcio e ripartire. 


E che fine fa grande lezione? Che fine fanno i fantasmi, le vittime, le consapevolezze nuove, i rancori maturati, la rabbia? Non hanno più diritto di cittadinanza, d’ascolto, di menzione: da necessari punti di partenza per l’elaborazione di un mondo nuovo, sono diventati ostacoli alla sua riapertura, all’abbraccio che ci tende e verso il quale abbiamo il dovere di andare. E’ tornata la dicotomia renziana: il triste è misoneista, disfattista, pessimista e menagramo, il gioioso è illuminato, forte, costruttore. 


“Sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam”, cantavano Enzo Jannacci e Dario Fo, in “Ho visto un re”: era il 1968, si contestava tutto, soprattutto il potere dei potenti, che allora era oppressivo in modo assai più esplicito di adesso, ma di subdolo esercitava proprio la coazione all’allegria, all’ottimismo, alla felicità. Se sei contento, non dai problemi. Se sei allegro, non vedi le catene o, se pure le vedi, le sopporti per il bene del tuo re, della storia, del futuro, del progresso. 


Non è molto diverso da allora, e i social network, quando ancora li contestavamo, erano la manifestazione plastica di come lo spirito del tempo ci richiedesse d’esser sempre sorridenti, reattivi, inespugnabili e impermeabili. Poi anche quella retorica si è esautorata e allora è diventato obbligatorio il contrario: dire la verità, denunciare il disagio, esporre la malinconia, mettere sul tavolo quello che c’è dietro al trucco, al montaggio, al filtro. In entrambi i casi, però, lo stare allegri è stato importante, fondamentale: nel primo perché rendeva avvenenti, nel secondo perché contava dire che, pur senza avvenenza, vestiti, glitter, ricostruzione ed editing, si poteva stare bene, godere, gioire. 


L’allegria non ha colpe. Anzi. Richiamarsi all’allegria, in una situazione barcollante e stordita e però pure affamata e affamante come la nostra, è giusto. Il punto è che l’allegria non è proprio quello che s’affannano a dirci Jovanotti e Morandi, incitandoci a partecipare alle sfide Instagram, dove ogni giorno ricevono e pubblicano video di italiani, illustri e non, che ballano e cantano il balletto della loro canzone, in una specie di rituale collettivo un po’ apotropaico e un po’ cancellatore. L’allegria è una cosa seria: implica la convivenza, non lo sgombero. Il cuore allegro non si sbarazza di niente: gestisce tutto. Non si libera dei pesi: li porta. Nell’etimologia di allegro c’è alecer, che significa veloce, ma pure fertile, duttile fecondo. Lavorare alacremente significa “operare con fertile e sollecita attività”. Esiste, quindi, nell’allegria, una fatica, un impegno. Non si scalcia: si incide. 


Nella sua raccolta “Un cuore allegro”, Viola Lo Moro, poeta e attivista, scrive: “Il cuore allegro non so come si irrora. Immagino un cervo un fiume lo scomporsi del sole sull’acqua il fuoco a sfida del buio: il cuore allegro”. Tenere il cuore allegro è una sfida e una battaglia, è partecipazione e non emancipazione. 
L’allegria non serve ad azzerare, ma a permanere. Diversamente, intesa come l’intendono Jovanotti e Morandi, è un sentimento coercitivo, fa leva sul senso di colpa, sull’obbligo alla performance, all’ottimismo, bandisce la remora, il languore, il dubbio, il dolore. 


E’ vero: dobbiamo ricominciare. E’ vero: dobbiamo ricostruire. Ma. 


Guardi Panariello che balla sul suo terrazzo, con il cane in braccio, e zompetta sulle note di “L’Allegria” e vorresti che ti contagiasse, ma non ti contagia: di contagi non hai più voglia. Ti ricorda tuo zio che, molto ubriaco, assai più di come sarà Burioni quando non ci saranno morti per Covid, ballava al matrimonio di sua figlia, sala Orchidea, ed era la prima volta nella sua vita che ballava e che metteva piede in una sala ricevimenti, che aveva peraltro pagato indebitandosi di lì a dieci anni – il matrimonio di tua cugina è durato cinque anni, tuo zio non si è mai ripreso.  


Pensi a “Quale allegria” di Lucio Dalla. Pensi che c’è poco da stare allegri: domani non sai come andrà, oggi non sai come stai, hai certamente voglia di ballare, uscire, cenare, scopare, abbracciare, ma piano, senza esuberanza, con la voce più bassa, il passo più lento. Hai fatto tanto per smettere di sgomitare e adesso arriva Jovanotti e ti dice di scalciare. Scalcia e tutto andrà bene. Come se alle spalle non avessimo che un incubo. Cos’abbiamo alle spalle? Una guerra? Un errore? Una benedizione? Abbiamo detto spesso che la pandemia è stata una guerra, ed era improprio. Ma è stato in guerra, accanto a un cadavere, che Ungaretti si è sentito “attaccato alla vita” come non mai. 


La Prima guerra mondiale è finita da un anno e lui, che è poco più che un ragazzo, pubblica una raccolta di poesie che si chiama “Allegria di naufragi”. Dentro, ci sono la maggior parte delle poesie che ha scritto durante la guerra, molte delle quali già pubblicate nel 1916 ne “Il porto sepolto”, e in una della quali, “Sono una creatura”, scrive: “La morte si sconta vivendo”.  


Nel 1931 la pubblica ancora, rivista e accresciuta, con il titolo che resterà anche nei successivi rimaneggiamenti, incluso l’ultimo, un anno prima della sua morte, nel 1969: “L’allegria”. Ci lavora, in sostanza, per tutta la vita. Come potesse parlare di allegria o anche solamente nominarla, lo spiega lui stesso in una introduzione. Scrive: “Il primitivo titolo, strano, dicono, era ‘Allegria di Naufragi’. Strano se tutto non fosse travolto, soffocato, consumato dal tempo. Esultanza che l’attimo, avvenendo, dà perché fuggitivo, attimo che soltanto amore può strappare al tempo, l’amore più forte che non possa essere la morte. E’ il punto dal quale scatta quell’esultanza di un attimo, quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare. Non si tratta di filosofia, si tratta d’esperienza concreta, compiuta sin dall’infanzia”. E ancora: “Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento: sono uno abituato a lottare, e devo confessarlo, sono un violento, sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte”. Si definisce poi “uomo di pena”. Allegro e in pena. Con il cuore contento. Ferito e contento, come il disco di Ghemon. 
Ci serve questo sforzo: amare la vita, amarla da sdraiati in una trincea. Ci serve stare, non evadere. Ci servono sia la gravitas che la levitas. Ci serve non accelerare niente. Ci serve presumere. 


Persino Fedez ha inserito, nella sua canzoncina, un’ombra, un dubbio, il segno di uno sfacelo: risolvo un problema, me ne restano mille. 


Gianni Morandi, invece, canta con Jovanotti: “Mai stanchi, mai tristi, mai colpevoli, un’auto, una strada e i dj favorevoli, la voglia di qualcosa che non so cos’è, le scale di casa da scendere a tre a tre, mi ci vuole quello che ci vuole quello che ci vuole, cos’è?”. 


Che ansia. La stessa ansia che instillavano gli influencer, anni fa, quando erano tutti felici, perfetti, bellissimi e realizzati. E correvano, facevano le scale tre a tre, e cosa importa del mondo, se non ti vuole, se s’ammala, se ti ammala: te ne fai uno più bello che problemi non ha. 
Quale allegria, senza sapere se strisciare se volare. 


Quant’è bella l’allegria, devo ricordarmelo. Quanto pesa, quanto ingombra, quanto è importante. E’ una cosa seria, l’allegria: molto spesso tragica, a volte comica. 
Un tuffo e ripartire. Niente calci.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.