Fedez, Orietta Berti e Achille Lauro posano per il lancio del singolo "Mille"

il foglio del weekend

Oriettona forever

Simonetta Sciandivasci

Da “Fin che la barca va” a “... e  poi me ne restano mille”. La canzone dell’estate è esplosa grazie alle paillettes della mitologica Berti. Fedez e Achille Lauro sono annientati dalla sua presenza. Ora la musica leggera guarda al passato

Quando il Dalai Lama ha visto Orietta Berti, ha detto: “Le esce una luce dalla testa, voglio parlarle”. Lei ha risposto: “Sono le meches, le ho fatte ai capelli”. L’assistente ha evitato di tradurre.  Capita spesso che le facciano un complimento e che lei lo riduca in poltiglia, il più delle volte inavvertitamente, senza volerlo. Le lusinghe non le piacciono e, quando le riceve, fa subito il nome di suo marito, Osvaldo, il grande amore della sua vita: hai gli occhi come l’Osvaldo, me lo dice sempre anche l’Osvaldo. Sono sposati da 54 anni; da 55 lei fa la cantante: è il dato che aggiunge e sottolinea sempre, quando la presentano, specie se dicono quanti dischi ha veduto. A essere impressionante, nella sua carriera, è la durata del successo, la quasi totale assenza di flop, incluse le volte che è parsa datata. Non ha mai ceduto al presente, non ha mai smesso di indossare scarpe troppo alte che le danno un’andatura buffa e tailleur glitterati e fiorati, da zia e anzi da nonna contenta. Non giovanile: contenta. 

 

A marzo, dopo molti anni di assenza, è tornata a Sanremo: unica signora in gara. Si è classificata nona, ma tutti i giornali hanno scritto che lei era la vincitrice morale, sia per aver accettato la sfida di gareggiare contro altre generazioni, sia per aver regalato alle cronache pettegole le storie più divertenti. Si è fatta quasi multare per violazione del coprifuoco, ha allagato la stanza del suo albergo, ha detto “mi piacerebbe duettare con i Naziskin”, ovverosia i Maneskin, che non si sono lasciati sfuggire l’occasione. 

Tutti vogliono cantare con lei: la nuova musica leggere italiana non disdegna le signore, anzi le cerca, le usa meglio di chiunque altro, regala loro la propria fanbase, come si dice. Fedez, il grande monetizzatore, al festival le si è avvicinato e le ha detto che aveva una canzone per lei, si sono accordati, lei poi gliel’ha cantata in un vocale di Whatsapp, e lui ha capito che aveva il pezzo dell’estate. “Mille”, di Fedez feat. Achille Lauro e Orietta Berti, infatti, è diventato disco d’oro e di platino in meno di tre settimane. Lei è in giro a cantarlo e parlarne in tutte le trasmissioni televisive pomeridiane, mentre gli altri due contano i dindi. Qualche settimana fa è caduta e si è fatta piuttosto male. Osvaldo le ha detto: “Ora starai bene a casa con me!”, ma lei se l’è subito filata da Mara Venier. Su Instagram, che ha imparato a usare magnificamente, ogni giorno riposta video di ragazzini che, di “Mille”, cantano esclusivamente il ritornello, cioè la parte che canta lei, che è la sola che ascoltiamo, tutti: la sola parte bella. I fan di Fedez e Achille Lauro le scrivono: ma allora è così che si canta? Lei ha sempre detto che la musica “di questi ragazzi di oggi” è poco orecchiabile, è troppo difficile, ed è la ragione per la quale tutti cantano ancora “Fin che la barca va”, mentre “Voce” di Madame è stata contestata perché il testo era incomprensibile (almeno, secondo alcuni). 

Guia Soncini ha scritto: “Anche io ho ascoltato Orietta Berti che canta con due che le stanno intorno, disturbandola”. E’ lei la chiave del successo di Mille. Lei che canta: “Quando sei arrivato ti stavo aspettando, con due occhi più grandi del mondo, quante stelle ci girano intorno, se mi porti a ballare. Labbra rosso Coca Cola, dimmi un segreto all’orecchio stasera, hai risolto un bel problema, e va bene così ma poi me ne restano mille”. 

 

Orietta Berti si esibisce alla settuntunesima edizione del Festival di Sanremo (foto LaPresse)

Nel video, lei canticchia con il vento tra i capelli, facendosi aria con due grandi ventagli di piume, completamente nel suo stile. E la concordia generazionale eccola qua: si fa mantenendo le identità integre, anche se capricciose. Mentre Lauro e Fedez, camaleonti sempre pronti a cambiare pantaloni, casacca, credo, sono abbigliati in tinta con i costumi degli altri, Orietta indossa il suo chiacchieratissimo, amatissimo completo glitterato con le conchiglie disegnate sul busto: la canzone è costruita intorno a lei, ogni aspetto simbolico richiama il successo di Sanremo e lo allunga, lo ripropone. Visto che ai ventenni e ai trentenni è stato contestato di aver bombardato la musica leggera, di scrivere canzoni senza storie, senza melodie, quelli ora scrivono canzoni con le signore e i signori di Sanremo, i Big, e si assicurano così una benedizione, un ingresso a pieno titolo in quella tradizione. Jovanotti ha duettato con Morandi (“L’Allegria”) e Ornella Vanoni con Colapesce e Dimartino (“Toy Boy”): in entrambi i casi, come per Mille, il pezzo gravita intorno agli anziani. In comune, Vanoni e Berti hanno la vecchiaia ben accolta, vissuta in modo gioioso, come una fase nella quale non si può più far tutto, e proprio questo è il bello. Che relax. La sola cosa sulla quale nessuno di questi tre signori sembra disposto a cedere, a rallentare, è il lavoro. E la loro presenza nelle classifiche estive non fa dire a quasi nessuno: ma quando ci liberiamo di queste cariatidi? Largo ai giovani! La ragione è semplice: è chiaro che stanno prestando soccorso. Ci guadagnano anche loro, naturalmente: i fan li acclamano, li adorano come fossero nonni, persone perbene. Morandi, Berti e Vanoni non sono percepiti come concorrenti, ma forze della natura cui attingere il più possibile. Sono anziani, portano il proprio tempo addosso: non vogliono quello dei giovani. Ci collaborano senza disperdersi, senza competere – sono i ragazzi che competono nel contenderseli. 

 

E’ l’esatto opposto di tutto quello che, sull’invecchiare, continuiamo a sostenere da molto tempo: diciamo che l’età non esiste, che è una convenzione, una scrittura storica spacciata per biologica – e ci convinciamo che sia esaltante, ci forziamo a fare gli addominali per raggiungerla, splendidi e in forma, depositari della smentita. Al Rolling Stone, Vanoni ha raccontato: “Vado a ‘Propaganda live’ e mi trovo questi due che mi dicono tutte queste grandi cose sulla mia voce e poi subito si mettono a cantare qualcosa, ma io se te la devo dire tutta non sentivo niente. Sorridevo perché pareva brutto non sorridere, mi sembrava giusto farlo insomma, ma di quello che hanno detto lì cantando non ho capito nulla”. Benedetta sia Ornella, fa venire voglia di invecchiare da quanto si diverte. E trovatene un’altra che fa Gloria Swanson in un video con due trentenni, nell’estate della ripartenza – ha detto che abbiamo bisogno di umorismo elegante: in realtà abbiamo bisogno di tutto, è tutto benvenuto. 

 

Orietta Berti e la sua collezione di bambole (foto Olycom)

Orietta invece canta versi d’amore senza ammiccare, come non ha fatto mai, stretta sempre dalla sua formazione “Tra bandiere rosse e acquasantiere” (così si chiama la sua autobiografia, uscita l’anno scorso per Bompiani). Diversamente da Gianni Morandi, che ci dice come dobbiamo stare, e ci invita all’allegria come fatto civico, lei non s’azzarda a fare niente del genere, non si permette di prescrivere nulla: l’allegria, però, la crea, la invoglia. La porta addosso, è un fatto genetico, è la via Emilia.  Cavriago, dove è nata e cresciuta, era una roccaforte del Partito comunista: è l’unica cittadina occidentale a vantare, in piazza, la presenza di un busto di Lenin, che fu donato all’amministrazione comunale come ringraziamento per aver sostenuto, agli inizi del Novecento, la causa della Rivoluzione russa versando 500 lire. 

La mamma di Orietta Berti era una militante del partito, mentre suo padre era un cattolico: lei è cresciuta tra queste due forze, due credo profondi che a volte guerreggiavano, e altre si alleavano, anche se ripercorrendo la sua carriera non si trova traccia diretta di questa storia. Il fascino di Orietta Berti è quasi esclusivamente legato al suo carattere, ai modi schietti ma gentili, al suo essere materna, zia, nonna, la brava signora che incontriamo alle sagre e che ci invita a mangiare perché dobbiamo crescere.  Neanche della sua vocazione al lavoro, duro e incessante, porta i segni addosso: è sempre domestica, dolcissima.  Qualche tempo fa, ha raccontato che Ornella Vanoni non voleva farsi fotografare insieme a lei, a Sanremo, dove duettarono portando un pezzo di Memo Remigi, perché “ti vesti sempre colorata!”. “Sa com’è, noi dello spettacolo a volte sosteniamo cose senza sapere perché”. E’ sempre stata refrattaria alle pose artistiche, alle dannazioni, ai misteri: lei cantava e canta, e basta.

Questo le fa fare Fedez: la fa cantare e su quel canto cuce un’identità chiara, invidiabile. “Nella vita ci si deve accontentare”, dice spesso. Purché si sia attivi. Preferisce parlare di giardinaggio che di musica, di famiglia che di arte. Ha le sue bizzarrie: figli, marito, nipote, cani, madre hanno tutti nomi che iniziano con la O. Bella come un tondo, con gli occhi più grandi del mondo.  Trova brutto Mick Jagger (ha ragione!), e ama Mastroianni, Charlton Heston e Paul Newman. E’ devota a Padre Pio, come Lucio Dalla. E’ anche indie: si produce da sola, dal 1980.  Ha avuto il Covid e ha raccontato che doversi prendere cura di nove gatti, due cani, tre pesciolini le ha dato un daffare così grande che i polmoni devono essersi rigenerati. E’  sempre il lavoro la sua cosa preferita, la sua salvezza.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.