Foto LaPresse - Claudio Furlan

Mostre digitali e pianoforti in strada, colpi di genio nell'estate musicale

Fabiana Giacomotti

I miti dell’opera alla Scala e il piano lab a Martina Franca. Una guida

Nella battaglia culturale a chi include di più e meglio sposa le cause del momento, il coté musicale estivo registra l’eccesso salisburghese del “Don Giovanni” diretto da Romeo Castellucci (oddìo che noia dover fare ancora il ripasso del #metoo, non eravamo già passati al #genderfluid? Leporello, per esempio, sarebbe potuto venire utile), ma anche qualche colpo di genio e una conferma niente male. L’exploit gode del supporto del ministero degli Esteri, che ha chiesto al Teatro alla Scala di organizzare una mostra virtuale, la prima della sua storia, per il centenario della morte di Enrico Caruso e della nascita di Giuseppe Di Stefano e di quel fusto (negli anni Cinquanta la dicitura era questa) che era Franco Corelli: si clicca alternativamente sul sito della Scala o su quello degli Esteri e, guidati dall’ottimo curatore Mattia Palma, si gironzola per gli ambienti del teatro godendosi arie e riprese che credevamo dimenticate, oltre a una spiegazione-con-aneddoti che sembra fatta apposta per avvicinare all’opera e a quei tre tenori da schianto anche i semplici curiosi o chi pensa che Caruso sia una bella canzone, certo un po’ esoterica, di Lucio Dalla. Non per insistere su Corelli, ma le fotografie di scena del suo debutto nella “Vestale” di Spontini, con la regia di Luchino Visconti che di sinestesie estetiche si intendeva più di ogni altro (chi ha voce, può avere anche gambe), sono una gioia assoluta. Le arie della tradizione napoletana di Caruso sono tutte da riascoltare, altro che infilarsi in quella taverna di banalità canore per turisti che è diventato l’Anema e Core di Capri.

 

In tema di conferme, o per meglio dire di rafforzamenti, va segnalata invece la bella conclusione della tre giorni di Piano Lab a Martina Franca, gioiello del barocco latifondista con tendenza rococò, che a cinque anni dal debutto si presenta come un’ottima versione, per l’appunto inclusiva ma soprattutto open minded, del Piano City milanese: in due giorni, con finale il 9 agosto, ai quindici pianoforti disseminati fra i palazzi, le piazze, i chiostri e il selciato bianchissimo, si sono alternati duecentocinquanta musicisti, alcuni noti a livello internazionale come Jean-François Antonioli o il ventenne Jacob Mason dal look Jesus Christ Superstar, nasino retroussé compreso, invitati dal nuovo direttore artistico Luca Ciammarughi, artista e critico molto in ascesa, altri del tutto sconosciuti in quanto seienni alle prese con le scale armoniche e le “tagliatelle” di memoria wilderiana, liberamente invitati a prenotarsi online qualche mese prima dell’evento e a suonare per il pubblico che raccoglieranno.

 

Non si viene pagati, non si paga, la selezione è autogena e autonoma: “E’ come essere invitati a una festa: lo scopo è divertirsi”, dice Giovanni Marangi, ultima generazione della famiglia che da cent’anni governa il mercato dei pianoforti al sud, isole comprese (iniziarono con le fisarmoniche dopo un’esperienza del capostipite a Castelfidardo, ora applicano il proprio logo accanto a quello di Steinway), dice di essersi formato alla scuola di pensiero di Paolo Grassi, nativo di Martina Franca e appartenente a quella genìa di poeti dell’educazione diffusa a cui si accennava sopra. In realtà l’iniziativa, che rientra in quella specifica branca del marketing nota come seeding, cioè semina, punta a raccogliere consensi e a conquistare la confidenza delle molte famiglie a cui ormai gli insegnanti di conservatorio propongono “per iniziare” il pianoforte digitale, che temiamo sia la strada maestra per stancarsi quanto prima dello strumento o per meglio dire del suo simulacro. “E dire che con un leasing ha il costo di una lezione al mese” sospira. Siamo stati in piazza a raccontare a una piccola schiera di ascoltatori il ruolo svolto dal pianoforte nell’ascesa delle classi borghesi del mondo occidentale per tutto l’Ottocento, scoprendo che per lo stato italiano le cose non sono cambiate da allora: il pianoforte è considerato bene di lusso, dunque tassato al 22 per cento. Da queste parti dicono tutti che basterebbe equipararlo almeno ai libri.

 

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