Elegante, mai invadente, colonna leale dei Rolling Stones. Chi era Charlie Watts
Un batterista bravo ma non stratosferico. Usò la droga ma non ne fece una bandiera. Non aveva velleità poetiche: che uomo perfetto
Era così elegante, così imperturbabile, Charlie Watts. Non rotolava affatto il batterista dei Rolling Stones, non si rotolava nel brago del rock’n’roll. E sì che nelle band il batterista è di solito l’energumeno oppure, come nel caso dei Beatles, quello meno dotato. E invece negli Stones il meno dotato era il chitarrista, Keith Richards, e l’energumeno, se un energumeno c’era, di sicuro non era lui. Più del rock amava il jazz e lo si capiva, quel bel jazz raffinato dei Cinquanta-primi Sessanta: lo avrei visto bene nel Dave Brubeck Quartet, come Joe Morello in giacca e cravatta fra piatti e tamburi. Non a caso nei Novanta formò un jazzoso Charlie Watts Quintet, non cambiò la storia della musica (non penso fosse sua ambizione, sembrava il musicista meno ambizioso del mondo e pure questo lo rendeva così distinto) però incise un buon disco.
Come tanti di quel mondo e di quel tempo usò l’eroina ma della droga non fece una bandiera come invece Keith Richards, il maledetto dei quattro. Che poi a pensarci bene la diacetilmorfina è sostanza soporifera, la droga giusta per un uomo tranquillo. La cocaina non era la cosa giusta per un signore sposato da sempre con la stessa donna, per un padre di famiglia, per un gentiluomo inglese che non aveva bisogno di cambiarsi d’abito (non era stropicciato nemmeno sul palco, ricordo polo impeccabili) per cominciare a leggere Roger Scruton. Appena ho saputo della sua morte mi sono messo ad ascoltare in sequenza i miei pezzi prediletti, “I can’t get no satisfaction” (1965), “Simpathy for the devil” (1968), “Gimme shelter” (1969), “Wild horses” (1971), “Shine a light” (1972), “Time waits for no one” (1974), fino al tardo “Rain fall down” (2005)... A parte “Simpathy” non è che si notasse molto, Charlie Watts. Non era un musicista invadente. Era un batterista bravo, non stratosferico, pertanto una colonna solida e leale per una band con una primadonna e mezzo. Aveva ottant’anni, spero non abbia sofferto, spero che alla fine si siano ricordati di dargli quella “Sister Morphine” che con le sue bacchette aveva onorato tante volte: “Per favore, sorella Morfina, trasforma i miei incubi in sogni” (le parole non erano sue, non aveva nemmeno velleità poetiche, che uomo perfetto).