Vianney Le Caer/AP 

Zitti e buoni

Basta polemiche sui Måneskin. Il “successo a tavolino” è l'alibi preferito di chi non ce l'ha fatta

Andrea Minuz

Non c’è nessun tavolino, algoritmo, o garanzia di successo nel mondo dello spettacolo. C’è sempre, però, una partita a poker con il gusto del pubblico: per ora la stanno vincendo alla grande

Nell’eterna competizione con Milano, città a vocazione internazionale, Roma si prende la sua rivincita strafottente con i Måneskin e Mario Draghi. Il gran borghese del liceo delle élite e i metallari di Monteverde che piacciono in Europa e piacciono tanto anche agli americani. Rinnovano e danno lustro, Mario Draghi e i Måneskin, all’immagine del paese (e a quella della città dei cinghiali, della metro sfasciata, degli autobus incendiati), come interpreti diversi di una “globalizzazione alla romana”, celebrata al G20 e l’altra sera a Las Vegas insieme ai Rolling Stones. Ma se su Draghi c’erano pochi dubbi, l’impazzimento generale per i Måneskin è un fenomeno imprevedibile, affascinate e inspiegabile. Perché un conto è vendere al mondo l’italianità di Laura Pausini, Ramazzotti o Il Volo. Un altro le schitarrate gender fluid di “Zitti e buoni”.

 

Appena arrivati sulla scena, li avevamo catalogati subito ai piani bassi o infimi del consumo musicale. I Måneskin hanno in effetti tutto quel che serve per farci alzare il sopracciglio: il mondo dei talent, i riff di chitarra banalotti, le linguacce, la competizione televisiva come valore artistico assoluto, Sanremo, l’Eurovision, uno sconcertante caso di antidoping applicato all’hard-rock (due parole, “antidoping” e “hard-rock”, che mai avremmo immaginato nella stessa frase, e che fanno l’effetto di un duello western di John Ford col Var). Questi “Måneskin”, insomma, restavano davvero un dilemma. Eppure, c’è poco da fare, hanno avuto ragione loro. Passare in meno di tre anni da un talent ai Rolling Stones (con una pandemia globale in mezzo) non è esattamente un’impresa alla portata di tutti. In un mondo dominato dalla mitomania, coi registi di due cortometraggi che dicono “il mio cinema” e gli scrittori invenduti “perché in Italia non si legge”, i Måneskin andrebbero messi sul piedistallo.

 

Di fronte al loro successo pazzesco la mia bolla Twitter è infatti interdetta. Le vendite globali de Il Volo si possono perculare, ma questi qui vanno a braccetto con Mick Jagger. Come ci regoliamo? C’è poi l’assurdità di un gruppo che perde “X-Factor” e vince Sanremo (Sanremo!), con un nome che si fatica a memorizzare (“Naziskin” li ribattezza Orietta Berti) e che finisce sul palco con gli Stones. I Måneskin come grande riscatto della Rai, anche. Una novità incredibile per le “questioni di genere”, dice poi il paese del bla bla bla interminabile sullo Zan. Ma a ben vedere la tradizione romana ha sempre sfornato questo mirabolante incrocio di coattagine ed estetica queer, rockstar un po’ “gattare” e “gattare” un po’ rockstar, da Renato Zero a Achille Lauro e, appunto, i Måneskin. Ce li immaginiamo in una scena di “Borotalco” di Verdone, mentre in un bar di Monteverde raccontano come è andata: “E niente, poi Mick quella sera a Las Vegas c’ha detto, ‘dai ragazzi fermatevi qualche giorno, domani faccio questa grande festa a Los Angeles, vi faccio venire a prendere col mio jet privato… Mannò Mick, grazie, come avessimo accettato”. Solo che possono dirlo davvero.

 

“Sono finti”, “tutto già sentito”, “musicalmente inesistenti”. Sono un “successo costruito a tavolino”, espressione cretina che esalta l’improvvisazione estemporanea (naturalmente in piedi, scomodi, senza sedie e tavolino) e la diffidenza per la pianificazione dei prodotti culturali pensati, preparati, confezionati in base ai target. Il “successo a tavolino” è l’alibi preferito di chi non ce l’ha fatta. Perché non c’è nessun tavolino, algoritmo, o garanzia di successo. C’è sempre una partita a poker con il gusto del pubblico. Sempre imprevedibile, ricca di colpi di scena, rivolgimenti, colpi di fortuna, disgrazie. I Måneskin, per ora, la stanno vincendo alla grande. E ci ricordano un po’ la favola di Sergio Leone, scaraventato dalla scalinata di viale Glorioso alle pendici della Monument Valley, per spiegare a Hollywood come si poteva rimettere in piedi quella cosa del mito della frontiera.

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