L'esplosione virale e milanese del punk. Aspiranti influencer, prendete esempio
Un libro raccoglie volantini, manifesti, fanzine, flyer. "Testimonianze visive di un'estetica che ha pervaso tutto quello che vediamo oggi". Chiacchierata con Giacomo Spazio
1984 2 Gennaio 27 MDC posterone
La copertina di Virus - il punk è rumore 1982-1989
Giacomo Spazio 95
1984 9 Settembre
Anarkia Zine
Un quadro Punk di Giacomo Spazio
Un momento della contestazione al convegno sulle bande giovanili
ANTIGENESI Band Punk Femminile
1985 Hidra Spazi Garibaldi
1984
1984 5 maggio
Per scrivere qualcosa intorno al movimento punk a Milano, partendo dai primi anni Ottanta, quando l'estetica meneghina (e nazionale) ha preso uno schiaffone dal quale non si è più ripresa, l’uomo giusto non poteva che essere Giacomo Spazio, grafico e disco/grafico, artista e investigatore urbano. La fresca uscita del volume Virus – Il punk è rumore 1982-1989 da lui curato insieme al pittore, scenografo e pioniere della street art milanese Marco Teatro, Goodfellas Edizioni, ha offerto al nostro incontro l’UpToDate necessario.
Nel libro sono raccolti solo documenti dell’epoca, in quantità e qualità di volantini, manifesti, fanzine, flyer. Poco testo, nessuna spiegazione, giusto poche righe a introdurre dove siamo e perché. “Più che un libro è una raccolta di quelle che si possono chiamare testimonianze visive. Volevamo mettere in chiaro l’esperienza che fu, e che non smette, resettando le cattive interpretazioni e le manipolazioni di chi ha ben poco da spartire con quella cultura. Ci abbiamo messo due anni a mettere insieme tutto il materiale”. Giusto il tempo sospeso dell’altro virus. Ma soprassediamo sulla coincidenza, per evitare la cronacaccia a riguardo.
Il libro si guarda, sfogliatelo. Con Spazio invece parliamo di quel momento che non smette. “Con questo nostro libro puntiamo anche a una nuova attenzione nei confronti dei centri sociali, degli spazi occupati, quelli che tanto indignano, e mettono pruriti ai censori. Sono luoghi che contengono focolai di idee, anche sbilenche, pure contrarie, dalle quali può però nascere un dialogo dentro, e non contro, la società”.
Il reale cognome di Giacomo non conta più, è evaporato nello Spazio senza passare dall'anagrafe: un nome si impone quando ruba un'identità, e Giacomo è uno dei pochi esseri umani che conosco a potersi definire "libertario". Aggettivo e sostantivo maschile, forma e sostanza insieme. Andiamo a prendere un po' di frutta al mercato, mentre racconta dell’esplosione virale e milanese del punk. “Siamo ai primi anni Ottanta. Ci sono il Vidicon, il Plastic, e il Virus. Il primo era un locale molto artistico ma si è spento subito. Il secondo invece raduna tutte le diversità; le spinte libertarie, etero e omo senza distinzione. E arriviamo a lui, il Virus, che è furia iconoclasta politica con al centro la musica che nessuna radio passerà mai. Ma in tutti e tre casi prevale molto l'estetica come spinta vitale”.
Quei primi anni Ottanta non sono solo piombo e dintorni. Non solo macerie di un conflitto. “Destra e sinistra, era già chiaro che avessero i giorni contati. Tra qualche decina d'anni, esisteranno sempre frange radicali riconducibili a vecchi schemi, ma anche i due sessi saranno passeggeri. Si entrerà ed uscirà da fasi omo ed etero più volte, nella vita. Esseri umani, punto.” Alla faccia del defunto ddl Zan. “La forza di quel periodo era in un pensiero intellettuale non borghese, finalmente. Anche all'università, ricordo un professore figlio di contadini. Si sentiva la possibilità di esistere in modo diverso. A tutti gli strati: tutta la cultura dominante esistente fino a quel momento era esplosa, o implosa, scegli tu...”. Mi astengo. Ci fermiamo alla bancarella che sa. Passa una ragazza con i capelli rasati sopra le orecchie e una sorta di criniera. Sarebbe più bella con qualunque altro taglio, a mio parere. “Vedi, quel taglio di capelli arriva da lì, è ovunque, così come le borchie tanto abusate nelle scarpe. Quella del punk è un'estetica che ha pervaso tutto quello che vedi oggi. La politica, la musica e la moda, da noi erano mondi separati; a Londra invece mi accorsi che erano da sempre collegate. Io presi a fare musica perché funzionava, attirava, era il linguaggio dell'aggregazione e dell'esposizione, ma a interessarmi erano soprattutto le parole, volevo essere poeta. Ho sempre messo lettere e parole in tutte le mie opere, dentro o fuori, perché hanno senso, suono, forma. Già alla fine degli anni Settanta facevo performance in cui declamavo in strada, improvvisandomi cieco”.
No future, era la didascalia dell'attimo. “Non: 'Io non ho futuro’, ma 'Questa società non ha futuro'. E allora me ne costruisco uno personale, dove esistere. I tempi di ognuno. Nessuna pressione. Tre accordi base”. Costeggiamo la Stazione Centrale, con il sole placido. “Il punk arriva a sostituire i figli dei fiori, ne trattiene la cultura libertaria, solo che ci aggiunge: Adesso però ti faccio incazzare!” Colora i fiori di nero. “Non per forza nero, c'era parecchio colore, colore che invadeva, disturbava negli abbinamenti. La cultura fricchettona non ha inciso nel cambiamento a tutti i livelli culturali perché era utopica. Tutti uguali e tutti in pace era senza futuro, e senza passato. Ma in quella cultura c'erano già pensatori o scrittori se vuoi, distopici, come P. K. Dick e W.S. Burroughs, J.G. Ballard”.
Come ha funzionato il tuo rapporto con la mano grande della borghesia milanese? “In editoria mi riusciva bene il Mass Market. Ho lavorato per quasi tutti gli editori. Sono sempre stato bravo a riconoscere quale fosse l'immagine più interessante per fare breccia nella maggioranza del pubblico, quella che funzionava di più su vasta scala: il massimo dell'attrazione. Una scelta che facevo con buona dose d'istinto, dopo anni di immersione nella sottocultura e nei suoi riferimenti estetici. Ci facevamo comodo: loro mi sopportavano e pagavano, io gli risolvevo il problema di avvicinarsi al pueblo”.
Parlando della sua devozione per Kate Moss, mi dice: “Perché cavalca il business dominante, rimanendo libera ed estrema”. Aspiranti influencer, prendete esempio. “La mia generazione è la prima che cerca di contrastare le cose sapendo che non sarebbe cambiato un cazzo. Perché il capitale comanda su tutto. E mantiene vivi quelli come me, intendo artisticamente, per alleviare un senso di colpa: quello di chi non fa più quello che vuole, quello che gli piace”.
Ma adesso fai parte anche tu della media borghesia. “Non rinnego e non giustifico, resta il fatto che io vivo in quella che è subcultura: è in quel magma che sono cresciuto e con il quale mi rapporto. Lavoro con artisti sconosciuti dei quali spesso finisco per comperare qualche lavoro, e che in alcuni casi nel tempo ho rivenduto per effettivo bisogno di soldi. Come sempre succede anche le produzioni più estreme e radicali diventano arte, e prima o poi l'arte diventa business: il mercato succede. Non c'è una strategia a monte. È un corso naturale”.
Come ti viene naturale guardare per terra. “Con te mi trattengo, ma in generale vago come un segugio. Anche nei cestini, spesso ci sono cose interessanti”. Segugio e randagio, Spazio si muove come se tutto girasse al suo ritmo, ai suoi bpm. Come se questo suo “essere mediamente conosciuto, ma ai margini” fosse la dimensione che si è scelto. Saliamo al suo appartamento. Gli dico che è una casa/museo, e lui risponde con un Sì perplesso, magari toccandosi i coglioni. Tutto il visibile, il leggibile, tutti gli strati di una cultura che può solo dirsi pop: tutto qui è pop, tutto è pop ovunque, fuori di qui. Mi siedo con la copertina di un vinile in mano. Colori aspri e spigoli. Gli parte un ricordo. “Una volta feci una mostra, ai tempi della sua etichetta discografica Vox Pop, con i demo in cd che mi erano arrivati da ascoltare seminati sul pavimento. Tutti entravano in punta di piedi, fino ad un certo punto della stanza. C'era una sospensione. Fino a quando uno ha scoperto di aver calpestato il suo e si è incazzato. Gli dissi: Non sei contento, almeno ha suonato una volta”. Un crack, un bel suono crudo, rapido. Una performance che ricordi così, cruda, rapida, che abbia osato superare i limiti?
“La tipa che si era appostata nella sala del Museo d'Orsay a Parigi dove è esposto 'L'origine del mondo' di Courbet, e al momento propizio si è seduta davanti al quadro, ha allargato gambe e gonna completamente, mostrando al pubblico presente la versione originale. L'arte è rappresentazione della vita. Non ne parla. Conduce chi guarda a dialogare di”. La versione tribale e stilizzata di una vagina era il marchio dell'etichetta Vox Pop, da lui ideato e realizzato insieme a Matteo Bologna. Durante quell’esperienza, Giacomo spingerà Manuel Agnelli a cantare in italiano.
Il sole d’autunno fa bene a Milano, come un pallido fard a una bella signora. E sarà che sono con Spazio, che organizza mostre, “per poter vedere quello che mi piace”, butto l'occhio a muri e graffiti, in maggioranza scarabocchi. “Sono la prima forma d'arte che si impone dal basso e l'ultima che si oppone al sistema. I nuovi industriali, chiamiamoli così, coloro che collezionano, se ne sono accorti perché viaggiano, e ovunque andassero nel mondo incontravano un graffito, mille graffiti. Hanno cominciato ad acquistarli. E se entri in una collezione dove ci sono anche gli illustri, sei sdoganato”. Ne ho visti alcuni che mi sono apparsi impossibili a farsi come un Caravaggio. “Ci sono bombolette, oggi, da paura. Ci sono una dozzina di tipi di ugello possibili, per linee o effetti di tutte le dimensioni, le vernici semitrasparenti che ti permettono di creare un 'tuo' colore come sulla tavolozza... Oltre ai collezionisti ci pensa il business a sdoganare e rilanciare. Chi opera ma non ha la tecnica di Michelangelo, può e deve puntare alla sua esclusiva. Puoi usare i colori che gli altri non usano, i soggetti che non vedono. Esiste sempre dell'altro, che ti appartiene”.
Esiste sempre dell’altro, che ti appartiene.