Marracash, il figlio del popolo
Il rap tagliente e smagliante del 42enne siciliano trapiantato a Milano, che nel nuovo disco "Noi, loro, gli altri" canta il tutti contro tutti di questi tempi
Il Re Tamarro del rap italiano ha fatto un disco importante e bisogna rendergli omaggio. Fabio Bartolo Rizzo, “Marracash”, 42 anni, siciliano trapiantato a Milano, zona Barona, è tornato con un nuovo lavoro dopo “Persona”, l’album che l’anno scorso ha dominato le nostre classifiche. Ed è un’opera di cui il rap italiano aveva bisogno, per ripensare i suoi valori e il suo significato tra i linguaggi del nostro contemporaneo, tornando ad aspirare a quella singolare postazione di osservatorio della realtà che ha avuto nei momenti migliori. Con un sapore decisamente old school, questo “Noi, loro, gli altri” è un disco di denuncia che analizza il nostro tempo condiviso disvelandone le ipocrisie ed è uno sforzo in favore del risanamento etico del paese, proposto da un adulto che ha passato l’adolescenza dove “le vere star erano i criminali”.
Possiede la calma della consapevolezza e il pregio della chiarezza, è guidato da un’intenzione determinata, sa declinare idee e visioni in una forma limpida ma al tempo stesso altamente poetica. Nelle 12 tracce (più 2 skit) ci sono voci, dialoghi, domande e risposte, c’è una fitta rete di rappresentazioni incentrate sui ragionamenti di Marra sul proprio personale (“Ho quarant’anni e mai visto un legame che rimanga / Un amore materno, viscoso, non mi serve, non lo voglio”), sul dipanarsi delle esperienze a Milano, la metropoli a cui è legato intimamente, ci sono brandelli di vita vissuta, note a margine, consigli per salvarsi la vita, citazioni de “La coscienza di Zeno” e omaggi a Simon Kjær, l’eroe degli Europei. Marra ha dismesso le smargiassate gangsta, le canta in faccia a chi fa del male, a chi imbroglia, a chi ruba i sentimenti, a chi rovina la musica, ai falsi, agli imitatori, agli ingordi, ai ladri di averi e di anime, ai cosplayer proliferati in una scena artistica adesso come non mai dominata dalle apparenze. Il disco è opera sua e di Marz (Alessandro Pulga) e Zef (Stefano Tognini), suoi angeli custodi in sala di registrazione. Ci sono partecipazioni di Gué, Mahmood, Calcutta, Fabri Fibra, tutte molto misurate e poi un’apparizione di Blanco che ha il sapore della concessione al nuovo mercato e citazioni volutamente coatte di Mario Del Monaco e Giuseppe Verdi. Poi c’è l’emanazione di questa storia nel gossip: durante la lavorazione dell’album, Marra e Elodie, super coppia del nostro pop, si sono lasciati. Anziché fare della notizia una materia da social, i due l’hanno sceneggiata, trasformandola nel soggetto dell’ultimo videoclip insieme, “Crazy Love”, in cui, con la complicità vocale di Mahmood, chiudono la questione annientandosi simbolicamente, come avrebbe fatto Scarface, se fosse stato più milanese, meno pazzo e almeno visionario quanto Marra.
La triade “Noi, loro, gli altri” del titolo diventa concept delle tre copertine con cui viene messo in vendita l’album: la principale, memorabile, effigia il gruppo di famiglia di Marracash, ancora con Elodie al suo fianco, i genitori, il fratello coi suoi figli, la manager Paola Zukar, tutti vestiti “da signori”, nella posa compresa di chi indossa quei certi abiti buoni di colori morbidi e con l’ostentazione di chi a lungo non li ha avuti, nemmeno si rievocasse “Rocco e i suoi Fratelli”. E poi le altre due cover, quella coi discografici e gli avvocati e quella in stile “volto nella folla”, gli uno-nessuno-centomila in nome dei quali Marracash racconta la sua rabbia e le sue fragilità.
I 10 minuti di platino del disco sono quelli che includono “Crazy Love”, “Cosplay” e “Dubbi”, i pezzi più intensi di una scaletta comunque tutta d’eccellenza assoluta. Qui Marra trova versi smaglianti e taglienti al tempo stesso, detti con quel timbro da autorevole padrino che già aveva ai tempi delle vuvuzelas di “Badabum ChaCha”, adesso stesi su un tappeto musicale ricamato di bellezze. Marra ci racconta come un paese sia finito schierato tutti contro tutti, e tutti pronti a ogni compromesso per prevalere, non soccombere e assoggettare chi ci circonda. Perfino nel suo mondo, quello del rap, adesso le cose stanno così e il gioco s’è fatto sporco al punto che ogni scopiazzatura, furto e ipocrisia soggiace a questa logica. Ma lui ne ha per tutti, a cominciare dal vecchio nemico Fedez, il “biondo patriota” che “sui social si prodiga per noi”, ma di cui denuncia la superficialità e l’approssimazione. E anche per gli ultimi arrivati Måneskin, fluidi e punk soltanto nell’estetica, ma a corto di autenticità. Marra parla come un veterano, maneggia materia radioattiva senza paura di contaminarsi, espone un’indignata sincerità e si ha l’impressione che lasci trapelare un irrisolto bisogno di paternità. Forse la sua maledizione è proprio questa, d’essere un capofamiglia senza una vera famiglia, ma ancora soltanto un figlio del popolo, che ha avuto in dono intelligenza e talento, canalizzandoli verso una messinscena potente. Marracash è un boss, a molti starà sullo stomaco, ma il rap italiano ha bisogno di lui.