Joni Mitchell, l'avventuriera del folk
È stata un’icona della musica. Ma pur di restare fedele a sé stessa ha pagato un prezzo altissimo
Poco prima del celebre “Sono andato a letto presto”, in “C’era una volta in America” Noodles si rivolge a Fat Moe con un altrettanto famoso “I vincenti si vedono alla partenza”, riferito a Deborah – la sorella di Moe – che nei trentacinque anni in cui Noodles aveva forzatamente vissuto altrove era riuscita a realizzare il suo sogno di bambina: diventare una grande stella di Broadway.
“I vincenti si vedono alla partenza” vale per un personaggio inventato come Deborah Gelly, ma anche per la reale Joni Mitchell (nata Roberta Joan Anderson e poi sposata per un anno e mezzo con Chuck Mitchell, del quale conservò artisticamente il cognome). La sua partenza fu molto casuale – un’apparizione al Newport Folk Festival del 1966, tanto casuale da non essere neppure segnalata nell’archivio della manifestazione – ma così significativa da venir ricordata in modo vivido da Lachlan MacLearn: “Era estate. La ragazza venne introdotta da Judy Collins, come una giovane artista da sostenere. In pratica lasciandola alla clemenza del pubblico che non aveva nessuna voglia di essere caritatevole verso chiunque – donna o uomo che fosse. Sul palco di Newport non c’erano gentilezze che tenessero. Quando il presentatore la annunciò ci fu qualche timidissimo applauso e la ragazza si presentò con un vestito lungo e la chitarra. Ero troppo indietro per vederne il viso. Suonò e cantò la prima canzone, in solitudine, è già dal primo verso il pubblico che prima faceva una gran confusione piombò in un silenzio di tomba per ascoltarla. Dopo tre canzoni la ragazza sconosciuta ricevé un’ovazione sorprendente e se ne andò dal palco, ma non venne richiamata perché non si poteva togliere tempo agli show degli artisti più importanti”.
Quattro anni dopo Joni Mitchell salì su un altro palco, stavolta però intensamente voluta dagli organizzatori del festival dell’isola di Wight, e, nonostante la sua fama consolidata, si trovò ad affrontare una situazione al limite del sostenibile. Il giorno previsto per la sua apparizione, sabato 29 agosto 1970, seicentomila persone attendevano gli show degli Who e dei Doors, con in mezzo le parentesi di Emerson, Lake and Palmer, dei Ten Years After e, persino, di Miles Davis.
Joni Mitchell salì sul palco nel pomeriggio, da sola, con chitarra, dulcimer e un pianoforte a disposizione e chiunque abbia bazzicato su un palco sa quanto sia difficile non avere nessuno accanto con cui condividere il prevedibilissimo – visto le grandi attese sulle performance elettriche – sfavore del pubblico.
Dopo un inizio tutto sommato promettente, lo show prese una brutta piega quando la cantante smise di accompagnarsi con la chitarra e abbandonò il proscenio – che in codeste circostanze rappresenta una solida testa di ponte – per retrocedere e sedersi al piano. Là suono la celebre “Woodstock”, che introdusse come una sorta di gemellaggio col festival dell’isola di Wight, ma il pubblico non condivise lo spirito della canzone e, di fatto, l’ignorò, mente qualcuno di passaggio sul palcoscenico cercò persino di impossessarsi del microfono per arringare la folla con il più classico dei panegirici simil buddisti. Quando l’invasore venne agguantato e strattonato dal servizio d’ordine, il pubblico iniziò a rumoreggiare.
A quel punto la cantante esasperata si rivolse alle decine di migliaia di persone che le stavano davanti e chiese di portarle rispetto perché nelle sue canzoni c’era il suo spirito. “Se volete fare i turisti fatelo da un’altra parte, ma qui portate rispetto verso chi si esibisce”. Subito dopo attaccò imbronciata “My Old Man”, che oggi molti considerano tra le sue più belle canzoni, ma che nel 1970 non era ancora edita perché il leggendario LP “Blue” uscì l’anno successivo.
Quindi, dopo aver preteso il rispetto che le spettava e suonato una canzone inedita, con un’audacia fuori dal comune propose un ulteriore brano inedito suonato col dulcimer “California”, anche questa oggi celeberrima, ma del tutto sconosciuta in quel frangente. Nonostante la novità dei brani, il carisma imbronciato di Joni Mitchell produsse la repentina modifica del comportamento degli spettatori e, come quattro anni prima, l’ovazione la santificò al termine dello show e questa volta venne richiamata sul palco per esibirsi in due bis.
La natura della fuoriclasse si manifestò ancora una volta quando lasciò alle spalle la naiveté dei grandi raduni hippy ed entrò in una dimensione musicale molto diversa, che la portò a includere nella propria band e a dare delle direttive più o meno rigide, ma pur sempre direttive, a Jaco Pastorious, un musicista da prendere molto con le molle. Poi la sua avventura musicale la condusse a una collaborazione a prima vista estremamente complicata con Charlie Mingus, che tutti conoscevano sia come jazz man monumentale sia come attaccabrighe di raro talento – Duke Ellington era l’unico musicista che riusciva in qualche modo a contenerlo – in più gravato dal terribile manifestarsi delle ultime fasi degenerative del morbo di sclerosi laterale amiotrofica, conosciuta anche come malattia di Lou Gehrig.
Eppure Joni Mitchell, perfettamente conscia dell’enorme statura musicale di Mingus, seppe mantenere la propria autonomia artistica, tanto da continuare a procedere nel progetto comune anche dopo la morte del grande contrabbassista. Continuò nel solco del jazz anche dopo il 5 gennaio 1979 – l’epilogo dell’esistenza di Charlie Mingus – e intraprese una tournèe che la vedeva attorniata sul palco da collaboratori (nel senso che collaboravano per ottenere ciò che lei desiderava) dell’importanza di Jaco Pastorious, Pat Metheny e Michael Brecker.
Non ci sarebbe alcunché di strano in un simile progredire della carriera di una grande artista, se non fosse che il jazz è un genere musicale percorso da un’enorme misogina, così che l’unica donna che, in qualche modo, è riuscita a circondarsi di nomi tanto altisonanti in un’epoca paragonabile a quella di Joni Mitchell (cioè escludendo Billie Holiday e Sarah Vaughan) è Carla Bley.
Perciò, in questo caso, si può anche oltrepassare il semplice “i vincenti si vedono alla partenza” per entrare nel novero delle imprese estremamente difficili da realizzare, ma che la grande audacia della protagonista, oltre che il talento, ha consentito di portare a termine.
C’è una precisa canzone di Joni Mitchell che esprime questa avventurosità. Si chiama “Amelia” ed è ispirata a un simbolo della caparbietà e dell’indipendenza femminile. Amelia Earhart fu una pioniera del volo. Fu la prima donna a transvolare in solitudine l’Atlantico nel 1932, poi gli interi Stati Uniti senza scalo e il Pacifico da Honolulu a Oakland. Come in una sorta di sublimazione della propria irrefrenabile missione, nel 1937 s’eclissò in qualche punto molto vicino all’Equatore, tra Papua e le isole Hawaii, durante il suo primo tentativo di giro del mondo in aereo. Nonostante le prolungate ricerche nessuno sa esattamente dove si sia inabissato il Lockheed Electra pilotato da Amelia. Tuttavia ancora oggi appaiono notizie che riguardano il possibile ritrovamento del suo corpo in qualche atollo del Pacifico occidentale, e ciò testimonia quanto il suo mito stimoli ancora la fantasia.
Le descrizioni del carattere dell’aviatrice Amelia Earhart paiono sovrapporsi perfettamente a quelle dell’artista Joni Mitchell: “Un fortissimo carisma, in qualche modo aumentato da una certa riservatezza, un grande senso di indipendenza, la capacità di mantenere la calma nelle situazioni più difficili, il coraggio e una carriera costruita inseguendo un obiettivo che era già chiaro in gioventù”.
Un possibile nesso tra le due personalità venne manifestato durante un’intervista del 1996 al Los Angeles Times. “Scrissi ‘Hejira’ (l’album in cui è contenuta ‘Amelia’) nel corso d’un viaggio fatto in completa solitudine da una parte all’altra degli Stati Uniti. In quei giorni tutto intorno a me era davvero un concentrato di intensa e dolcissima solitudine. E’ quello che ho cercato di descrivere in ‘Amelia’ quando canto: ‘Allora la tua vita diventa un diario di viaggio, pieno del fascino delle fotografie sulle cartoline’. Prima di scrivere la canzone, a causa dei continui spostamenti, pensavo molto ad Amelia Earhart e così ho immaginato che il testo potesse essere una sorta di scambio di messaggi tra due piloti solitari. Una specie di riflessione sul costo di essere una donna che ha qualcosa da fare assolutamente. Un obiettivo preciso da raggiungere”.
È proprio ciò che, per esempio, canta B.B. King in “Paying The Cost To Be The Boss” (“È da così tanto tempo che pago il biglietto per essere il Boss”), solo che B.B. King è un uomo e non una donna. E non è affatto la medesima cosa, perché il prezzo pagato da Joni Mitchell per essere sé stessa è davvero inimmaginabile.
Nel 1964, all’inizio della sua carriera, quando suonava nei piccoli club di Calgary e Toronto, scoprì di aspettare un bambino da Brad McMath, come lei studente dell’Alberta College Of Art, ma che nel frattempo s’era già trasferito in California. Così rimase sola e non volle provocare dolore o scandalo ai suoi genitori. Continuò a suonare e, in qualche modo, portò avanti la gravidanza. Il 19 febbraio 1965 nacque Kelly Dale che venne temporaneamente data in affido in attesa che le cose si sistemassero un poco.
Ma la vita di una aspirante folk singer non si sistema mai troppo velocemente, così Kelly Dale venne dichiarata adottabile e immediatamente adottata dalla famiglia Gibb di Toronto.
Nella vita di un’artista – con o senza apostrofo – i sensi di colpa sono gli avversari più pericolosi e conducono a canzoni come “Little Green”, anche questa inclusa in “Blue”, in cui Joni Mitchell augura una buona vita a Kelly Dale, alla quale i genitori adottivi avevano già cambiato il nome.
Venticinque anni dopo l’uscita di “Blue”, nel 1996, Joni Mitchell, attraverso i suoi legali, intraprese la ricerca di Kelly Dale che, a sua volta, era da tempo sulle tracce dei suoi genitori biologici.
Nel 1997, trascorsi trentadue anni dall’adozione, Joni Mitchell e Kilauren Gibb, la “Little Green” della canzone, s’incontrarono.
Dopo il 1997 Joni Mitchell produsse solo due album che contenevano materiale originale, i restanti erano riarrangiamenti di suoi vecchi brani o di evergreen jazz.
“È come se non m’interessasse più scrivere canzoni. A questo punto potrei anche dire che la mia vera carriera come autrice è inclusa tra il momento in cui ho dato in adozione mia figlia e il momento in cui l’ho rincontrata. E’ come se l’esistenza, ma la non conoscenza di Kilauren, l’essere madre, ma non avere una figlia fossero connesse con la mia capacità compositiva. Come se tutto fosse sublimato nel mio periodo più creativo. Però credo anche che se io e Kelly Dale fossimo rimaste insieme non avremmo mai avuto una vita felice. A lei avrei rimproverato il fallimento di ciò che desideravo così tanto: essere un’artista”.
È davvero come se una B.B. King donna cantasse: “E’ da così tanto tempo che pago il biglietto per essere il Boss”, sulle note del blues più toccante che sia mai stato suonato.