L'intervista
"Non c'è motivo di castigare la musica". Parla Sergio Caputo, vampiro del jazz
Le notti vagabonde, gli anni Ottanta, la Roma da bere: "Non la vedrò più, quella era una città viva. Ma niente nostalgia". San Francisco e la Francia. Dizzy Gillespie e Sanremo che ci pugnala (ancora). E un sabato qualunque, nel lusso dell'anonimato. Chiacchierata musicale
È un cervello, anzi, un'ugola in fuga. Da Roma a San Francisco, dall'America alla Francia, dove abita oggi. Chissà se Sergio Caputo, uno dei musicisti italiani più originali di sempre, ripensa ai fichi d'india della terra natia con un groppo in gola, come il suo Garibaldi Innamorato. “No, anche perché in Italia ci torno spesso". Bella ma non ci vivrei? "È che la Francia mi permette il lusso dell'anonimato, con il quale si vive in maniera più facile e serena”. Sembra strano detto da un animale da palco. “È vero. Sotto i riflettori mi trasfiguro”. In Italia ci passa per qualche settimana di vacanza (“Mi manca molto il cibo, qui si mangia male”, dice, con nostro sommo sbigottimento) e per qualche concerto. Post-it: il 21 gennaio sarà al Blue Note di Milano, il 2 marzo a Roma, all'Auditorium Parco della Musica.
Pandemia permettendo, è ora di tornare sul palco, il peggio sembra essere passato? “Penso sia giusto ragionare come se lo fosse. Non c'è motivo di castigare la musica, nei teatri con il pubblico seduto si mantengono le distanze, tanto più che non suono punk e non si poga sotto il palco. C'è più interazione all'uscita dalle scuole che a un mio concerto, per intenderci".
Ma bisognava andare per forza in America per fare jazz? Per campare di musica? “Sono sempre stato irrequieto”, dice Sergio Caputo. “A un certo punto sento il richiamo della foresta. Sono un musicista indipendente dagli anni Novanta, senza major alle spalle. Se non ti evolvi e se ti adagi sbiadisci. In questo senso l'America è stata una grossa scuola”. Chiamala scuola: una master class californiana durata 12 anni. “Ho suonato per gli americani – anche trovandomi ad essere l'unico bianco – in locali mitici: all'Enrico's Sidewalk Cafe, per quasi 50 anni tana jazz di poeti, politici e nottambuli, che ha chiuso i battenti nel 2006, al Fairmont Hotel, al Top of the Mark. In America ho dovuto imparare a suonare bene la chitarra perché nessuno sapeva i miei pezzi e dovevo guidare la band”. E così si fa conoscere come chitarrista “smooth jazz”.
Il viaggio però parte da Roma. Che non è certo quella che conosciamo oggi. “Quella Roma che amavo non la vedrò più, nemmeno se un colpo di bacchetta magica sistemasse monnezza e buche nelle strade. È proprio che quella di allora era una città viva”. La Roma del sindaco Nicolini, dell'estate romana che in tanti ancora ricordano con i lucciconi e che altri hanno provato a rieditare senza successo. Quella degli Eighties, la Roma “da bere”, se mai c'è stata. Per lui di sicuro sì. “Faceva una vita talmente sregolata che non pensava neanche di arrivare ai 35 anni”, dice di lui Carlo Massarini, il mitico conduttore del mitico Mister Fantasy, che produsse i primi video clip di Caputo, il vampiro swing. Erano i primi Ottanta e lui, nemmeno trentenne, quando sorgeva il sole (e probabilmente con un buon paio di occhiali scuri) faceva il pubblicitario alla McCann-Erickson, multinazionale dell'advertising. Dopo il tramonto (e un pisolino) scorrazzava per le notti romane. Rutilanti, alcoliche e vagabonde. Quelle notti immortalate nella copertina di Un sabato italiano, il suo primo grande successo, che registra a 29 anni. E che fa subito il botto. Effetti stroboscopici del destino.
Ma insomma, come è un suo sabato qualunque di oggi? "Allora ero un single con i soldi, adesso ho tre figli di nove, otto e quattro anni...". Non ci sembra il caso di infierire. Rimane che Caputo è uno di quei cantautori troppo spesso incasellati nel "troppo spesso dimenticati". E invece davanti ai suoi palchi ci sono anche ragazzi che quando usciva Un sabato italiano non erano nemmeno nati ma ai quali calzano ancora a pennello i suoi racconti da tiratardi, quell'ironica malinconia e quella metrica sghemba e perfetta. E che si rispecchiano nelle sue notti così diverse da quelle del nuovo millennio eppure così uguali, in fondo, nella loro leggerezza be bop.
Nell'ipotetica carta nautica intorno all'isola Caputo c'è anche un approdo a Sanremo. Anzi, tre, a dirla tutta. Ma con il festival dei fiori non ha mai avuto un buon rapporto: "La mia esperienza generale non è stata positiva. La prima volta (nel 1987) portai il Garibaldi innamorato e mi divertii, le altre due volte rimasi incastrato nelle dinamiche delle cessioni delle case discografiche, della Cgs alla Warner e della PolyGram alla Universal. Praticamente abbandonato a me stesso”. E poi c'è anche tanta Milano. Lì incontra l'icona jazz Dizzy Gillespie "Io all'epoca suonavo con Tony Scott che mi presenta questo marcantonio. Quando scopro che è Dizzy ci resto di sasso. Vado a New York e scopro che una sera suona al Blue Note (che per altro è molto meno bello del suo fratello milanese). Ci vado e nell'intervallo suggelliamo la nostra collaborazione, mentre lui mangia una pizza in camerino. Aveva ascoltato dei demo che avevo registrato solo con chitarra e schiocchi di dita. In cuffia, da un mangianastri, facendo una faccia strana. Ma quando ho visto che iniziava a tenere il tempo coi piedi ho capito che era fatta”. E così Gillespie diventa la tromba nel pianeta Venere e in Trio vocale militare, due brani dell'album Effetti personali. “Aveva un'agenda fittissima e per registrare l'ho seguito, di notte, prima a Bologna e poi a Barcellona”.
Le scorribande notturne, il cantante di night dalle alterne fortune. Qualcuno l'ha paragonato a Buscaglione, e sono state "botte". "Ma no, è che a volte la gente si fa una certa idea di te e se la smentisci se la prende. Buscaglione faceva un altro mestiere: interpretava personaggi che non appartenevano al suo mondo né all'America di quegli anni, un duro macchiettistico. La mia invece è autobiografia, raccontavo la gente che incontravo", dice, ricordando le scorribande con gli amici, equilibristi in bilico sul fine settimana. Anche se accompagnati, dalla musica di ieri. Il jazz, lo swing e il loro immaginario malinconico e romantico.
Nessuna nostalgia invece per quegli anni Ottanta che in tanti, dai rivenduglioli di bric a brac ai giganti dell'intrattenimento, insistono a tirar fuori dalla naftalina. “Certo, una cosa mi manca di allora: i cantanti dovevano saper cantare. Però mi trovo più a mio agio nell'epoca digitale”, dice Caputo. “Anche perché adesso posso fare dischi in autonomia: prima eri alla mercé della sala incisione, oggi fai da te”.
Così è stato per l'ultimo Ep, uscito a febbraio 2021 e composto da lui, da Fabiola Torresi al basso e da Alessandro Marzi alla batteria. “Il trio è la mia formazione ideale”, spiega. “L'interazione è totale: più gente c'è sul palco e più c'è casino”. Del resto, dice Caputo, “La musica c'è già, devi solo scriverla. A volte sento una canzone che mi gira attorno, la butto giù per levarmela di dosso. Michael Jackson diceva che se gli veniva in mente un brano doveva registrarlo subito, altrimenti quel pezzo sarebbe andato da Prince. E anche Santana ai tempi di Super Natural ha parlato di un genio creativo, una strana entità che chiamava 'Metatron' che lo aveva ispirato. Per lui era importante entrare in sintonia con gli spiriti della musica in modo da poter realizzare delle canzoni interessanti. La penso più o meno così anche io”. Intanto possiamo tenere il tempo col piede e aspettare che lo spirito della musica faccia capolino per l'ennesima volta chez Caputo.