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Elza Soares e Garrincha erano l'allegria del popolo

Marco Pastonesi

Ieri è morta la cantante brasiliana, nello stesso giorno, 39 anni dopo, dell'addio al mondo del suo grande amore, il campione della Seleçao

Il giorno che scoprì di avere una voce e di saper cantare, aveva 30 anni e le stava morendo il terzo dei tre figli. “Non avevo i soldi per farlo curare. Alla radio sentii che a ‘Nota 5’, il programma di Ary Barroso, il montepremi stava salendo. Non so come, ma sentivo che quel premio sarebbe stato mio. Mi iscrissi. Mi dissero che mi sarei dovuta fare bella. Ma non avevo vestiti né scarpe. Presi un vestito di mia madre, ma lei pesava 60 chili, io 32, immaginarsi. Lo adattai con le spille. Adesso le spille sono di moda, le mette anche Madonna, ma è una moda che cominciai io quel giorno. E come scarpe calzai dei sandali che”, tanto erano sfiniti, “chiamavano ‘mamma, sono nella merda’. Poi andai e, quando mi chiamarono, salii sul palcoscenico dell’auditorium. L’auditorium era strapieno e tutti scoppiarono a ridere di me. Ary mi chiamò e mi domandò:

‘Che cosa sei venuta a fare?’.

‘A cantare’.

‘Ma dimmi una cosa, da quale pianeta sei venuta?’.

‘Dal tuo stesso pianeta’.

‘E qual è il mio pianeta?’.

‘IL PIANETA DELLA FAME’.

E tutti quelli che stavano ridendo compresero che era una cosa seria e si misero tranquilli. Cantai ‘Lama’ (fango). Il gong”, che interrompeva i cantanti quando venivano fischiati, “non suonò, vinsi il premio, e mio figlio è ancora vivo, grazie a Dio. E da allora porto con me sempre una spilla. Il tempo è passato e io ho continuato ad avere quella fame, fame di cultura, di dignità, di istruzione, di uguaglianza e molto di più, penso che la fame cambia solo la faccia, ma non finisce mai. Esiste sempre un vuoto che non si riesce a colmare e questa è la ragione della nostra esistenza”.

Aveva 90 anni, Elza Soares, quando raccontava il giorno in cui scoprì di avere una voce e di saper cantare. Più o meno, un anno fa. Ieri Elza è morta. È morta lo stesso giorno e lo stesso mese, 39 anni dopo, la morte dell’uomo che ha più amato nella sua vita: Garrincha.

Se Elza cantava sui palcoscenici con una voce che suonava come un sassofono (a dirlo, Louis Armstrong), Garrincha cantava sui campi con un pallone fra le gambe. Se Garrincha fintava e dribblava e tirava e segnava con gambe storte e asimmetriche, Elza fintava e dribblava e tirava e segnava con una voce roca, stridente, profonda, liquida. Erano unici, originali, autentici. Erano nati e cresciuti maledettamente poveri. Erano diventati l’allegria del popolo.

 

Si erano conosciuti in Cile. Mondiali di calcio 1962. Elza, che aveva inciso un paio di dischi – samba, bossa, jazz -, invitata a rappresentare il Brasile, e Garrincha, che aveva già conquistato i Mondiali di quattro anni prima in Svezia, ala destra in un attacco recitato come una poesia o come una preghiera (Garrincha, Didì, Vavà, Pelè, Zagallo), atteso come un angelo, anche se dalla faccia sporca e dalle gambe sghembe. Si incontrarono, si riconobbero, si amarono. Elza aveva la fama di spaccafamiglie, Garrincha no ma solo perché ai maschi, e ai calciatori, tutto era permesso e tollerato, tant’è che aveva già avuto 10 figli da due donne. Mandarono all’aria tutto. Si sposarono nel 1966, anno del terzo Mondiale di Garrincha. Ma la sua stella era già declinata, la sua carriera tramontata, il suo fegato violentato. Squadre sempre più scarse, ingaggi sempre più modesti, partite sempre più rare, prodezze sempre più invisibili. E nella vita quotidiana problemi insormontabili: le precedenti mogli che reclamavano, le sedicenti amanti che si proponevano, le figlie e i figli, quelli riconosciuti e quelli che spuntavano fuori dopo notti brave e confuse, e i fallimenti finanziari, e la povertà di ritorno. E nonostante il nuovo grande amore, quello per Elza, ancora guai. La morte di un figlio avuto da Elza in un incidente stradale, la morte della mamma di Elza in un altro incidente, stavolta causato da Garrincha alla guida, forse in stato di ebbrezza. Garrincha riuscì a evitare il carcere, ma non depressione e alcolismo.

Elza, però, splendeva. Dischi, concerti, tournée. Nel 1970 fu chiamata a Roma, al Teatro Sistina. Garrincha la accompagnò. Trovarono un appartamento in affitto al mare – tutti e due nati a Rio de Janeiro, del mare non potevano fare a meno - a Torvajanica. Lui trovò addirittura un lavoro: testimone del caffè brasiliano per conto del Consolato. Un giorno, a Campo dei Fiori, il suo vecchio amico e compagno di squadra nel Botafogo e nella Seleçao (la squadra nazionale brasiliana) Dino Da Costa lo vide mentre camminava, vagava, beveva, giocava a pallone con dei ragazzini per la strada. Da Costa, che in Italia aveva giocato nella Fiorentina, Atalanta, Juventus, Verona, Ascoli e soprattutto nella Roma, a quel tempo allenava il Sacrofano, una squadra di terza categoria, tra la Flaminia e la Cassia, una ventina di chilometri a nord di Roma. Da Costa trovò il suo vecchio amico stranito e conciato. Lo convinse a incontrare il presidente del Sacrofano, Michele Di Piero, che di lui si innamorò e lo ingaggiò, un tanto a partita, centomila lire, si dice. E siccome non poteva essere tesserato, come straniero, per il campionato, Garrincha partecipò solo a tornei e amichevoli, organizzati per lui, su di lui, con lui. Maglia giallorossa, come quella della Roma amata dal presidente Di Piero, e il numero 7.

 

Corrado Corradini, nella Lazio la trafila delle giovanili fino all’esordio in prima squadra nella Coppa delle Alpi, poi allenatore nello staff della Lazio e della nazionale italiana, ricorda Garrincha come un uomo educato, rispettoso, semplice, disponibile, e come – ancora, sempre - un fuoriclasse.

Quella volta che, pronti-via, calciò in porta e segnò un gol da metà campo. Quella volta che segnò un gol da calcio d’angolo, da destra, calciando di esterno destro, sul primo palo, sopra la testa del difensore che, allora, proteggeva quello spicchio di porta e quello spazio d’area. Tutte quelle volte che ubriacava l’avversario con una sola finta e lo lasciava – perdonate l’espressione - con il culo a terra. Tutte quelle volte che guadagnava il fondo e serviva un pallone al centro da spingere soltanto dentro la porta. E tutte quelle volte che lui, Corradini, passava il pallone a Garrincha e poi si fermava ad ammirarlo, come al cinema, come al teatro, per vedere che cosa avrebbe creato, che cosa si sarebbe inventato. Uno spettacolo. Di più. Un’arte, una poesia, un’allegria. E quella volta che, forse in una trasferta a Sarteano, il pullman si fermò su una salita e Garrincha sbuffava perché aveva appuntamento con Elza. E tutte quelle volte che le tribune venivano riempite fino all’inverosimile dai sacrofanesi e dai tifosi delle squadre avversarie. Quando mai si era visto – e quando mai si rivedrà – un doppio campione del mondo giocare in un campetto di periferia, di paese, di provincia?

Un mese di calcio, un mese di allegria, un mese di gloria. Ma un mese passa in fretta. Terminati gli impegni artistici, Elza tornò a Rio, e Garrincha con lei. Vecchi vizi, mai abbandonati. Quando Garrincha, prigioniero dell’alcol, aggredì Elza, Elza, con la morte nel cuore, lo abbandonò al suo destino. Ma senza mai rinnegare l’amore più appassionato, più torrido, più profondo della sua, della loro vita. E continuando nella sua arte: quella voce speciale. Fino all’altro giorno.

Cantava ormai seduta, ma cantava. E la settimana scorsa stava ancora registrando, perché se c’era da aiutare qualcuno più giovane, qualcuno meno celebre – con lei capitava sempre -, non si tirava mai indietro. Proprio così: “Il tempo è passato e io ho continuato ad avere quella fame, fame di cultura, di dignità, di istruzione, di uguaglianza e molto di più, penso che la fame cambia solo la faccia, ma non finisce mai. Esiste sempre un vuoto che non si riesce a colmare e questa è la ragione della nostra esistenza”.

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