Una temporanea bugia, il ritorno di "Gi" Kalweit
A fine marzo il nuovo album della voce dei Delta V, dopo anni di pausa, con Cesare Malfatti (La Crus) e una squadra di signori musicisti meneghini. Dalla terra Dakota a Milano, "la vostra New York", arrivi e partenze, la musica e la pittura
'Une belle histoire', canzone francese del ’72, diventa Un'estate fa per mano del Califfo nei primi ’90. Dopo l’interpretazione arcaica degli Homo sapiens e quella salottiera di Mina, la rimasticano i Delta V nel fresco millennio. La favola estiva, con la voce bassa di Georgeanne Kalweit, si insinua ovunque. E la nostalgia si fa danzante.
È anche un po’ di quella nostalgia che mi spinge a incontrare Georgeanne, appena saputo del singolo appena uscito 'Your Go To', anticipo del nuovo progetto che uscirà in primavera, con Cesare Malfatti (La Crus, The Dining Rooms): ‘A Temporary Lie with Georgeanne Kalweit’. Una temporanea bugia. “In inglese si intende anche quando ti fai di qualcosa, è un’evasione.”
Georgeanne è nata a Minneapolis, ha vagabondato per amore e per arte, ma è sempre tornata a vivere a Milano. Ed è al Bar Gioia, a uno sputo dalla Stazione Centrale che ci diamo appuntamento. “La Stazione l’ho dipinta molte volte. Soprattutto il Gran Bar, che c’era sopra, dentro la Stazione. Amavo stare e guardare il via vai della flora e della fauna.” Arrivi e partenze, of course. Perché Gi, sillaba che sostituisce per rapidità il suo nome, non ha mai smesso di dipingere. E di esporre. Architetture urbane e crepuscolari che fanno tanto Edward Hopper. Il critico d’arte Carmelo Strano ne ha scritto a gennaio.
La prima volta in Italia, giovanissima, ci sei venuta infatti per studiare Storia dell’arte a Firenze.
“E mi sono innamorata. Avevo in testa solo un pensiero: ritornare in Italia. E sono finita a Milano. Ogni tre mesi uscivo, andavo in Svizzera a riprendere il visto per l’Italia, compravo le sigarette, e tornavo”.
E non cantavi.
“Sono la quinta di cinque sorelle. Dopo di me i miei avevano rinunciato ad avere un figlio maschio. Però sono nata con una voce bassa, maschile. Da piccola mi vergognavo di questo mio tono, e stavo zitta. Al Liceo mi hanno cacciato dal coro, perché non sapevano dove collocarmi. E aggiungiamo pure che i primi tempi, a Milano, mi presentavo come Gigi, per abbreviare Georgeanne, e tutti ridevano di questa tizia americana che dice di chiamarsi Luigi. Comunque, iniziai a insegnare lingua inglese all’ITSOS, e il bibliotecario della scuola mi disse: Ma che vocione che hai! Ma canti? Dai, vieni a fare la corista nel nostro gruppo. Code di paglia”.
E hai preso subito fuoco. Sapevi cantare.
“Era nella mia orbita: mia madre era cantante di musical. E ci sono stati i 5 anni di sudore e divertimento coi ‘Mo stipiti funk’. Eravamo in 10 sul palco. Abbiamo suonato anche a San Vittore, sponsorizzati da Fiorucci. Intanto avevo conosciuto Carlo Bertotti e Flavio Ferri, i due futuri Delta V: mi ha comprato un quadro Flavio a una mostra che avevo fatto sul barcone delle Scimmie. Allora facevano jingle pubblicitari e mi coinvolsero. Per chi se lo ricorda, Cheap & Chic di Moschino. Poi mi sono innamorata e sposata, e ho seguito mio marito a Los Angeles. Così ci siamo anche scambiati le rispettive cittadinanze. Lasciammo parte dei mobili del nostro appartamento milanese alla casa occupata di via Garigliano”.
A Los Angeles altri cinque anni, che paiono essere il ciclo delle tue esperienze.
“Il matrimonio va come va, e me ne torno a Milano, che è sempre stata il mio rifugio. Chiamo subito Carlo e Flavio, e scopro che mi stavano cercando da mesi. Volevano me per il terzo album dei Delta V, dopo il successo di ‘Se telefonando’. Mi sono venuti a prendere al baretto del Leoncavallo. Avevano già dei brani pronti”.
Che sarebbero diventati l’album ‘Monaco ’74’. E sei entrata in una favola, come dice la canzone.
“La registrammo a Londra, ‘Un estate fa’, con Roberto Vernetti. C’erano tanti soldi, all’epoca. Tipo veri strumenti, un quartetto d’archi registrato in una chiesa in Italia, arpa, flauto e tromba. Si vedeva anche dai budget dei videoclip. E la villa ottocentesca in collina ligure, dove abbiamo registrato. E puoi immaginarti il movimento, una festa permanente. Io però non avevo né tv né computer, e sono andata in un internet point, per vedermi. E l’ho ascoltata alla radio, in cucina, mentre lavavo i piatti.” Mi sono rivisto l’esibizione al Festivalbar. Il ballare morbido e trattenuto, l’azzurrissimo sguardo. “Dopo quello sono stata catapultata in un altro mondo. Sono andata dove mi hanno detto di andare. Seguivo il flusso. E non potevo scendere”.
Una temporanea bugia. Quattro anni stavolta.
“Dopo che mi sono staccata dai Delta V, avevo bisogno di fare una vita normale e di scrivere le mie canzoni in inglese, non avevo d’altronde nessun potere artistico con loro. Ho anche fatto l’aiuto cuoco in quel periodo, a Lodi”.
Ma sempre cantando, e stavolta intestando chiaramente l’impronta artistica: prima nei ‘Kalweit and the Spokes’ di Milano, poi con ‘The Kalweit Project’ di Lecce. Quindi arriva Cesare Malfatti.
“Ci siamo conosciuti parecchio tempo prima, a casa di Vinicio Capossela, nel 2003. Aveva bisogno di una madrelingua per 'The Dining Rooms.’ E mi ha ridato voglia e fiducia. Siamo sempre rimasti in contatto, e in collaborazione. Durante il primo lockdown mi manda un provino in finto inglese di un suo pezzo, e mi chiede di farglielo vero, l’inglese. Quando poi lo sente cantato da me decide che avremmo fatto un album insieme.”
L’album uscirà a fine marzo. Il video del singolo ‘Your go to’ è un montaggio di riprese fatte col telefonino da Gi, in viaggio, in Minnesota, a New York. Si respira la suggestione dello spostamento, nomade. Intanto eravate chiusi in casa.
“Gli mandavo i provini cantati con lo smartphone, poi Cesare mi ha detto: ‘Perché non impari a registrare?’ E allora ho ordinato microfono e scheda, e davanti ai rispettivi pc lui mi spiegava come procedere, fino a quando sono stata autonoma. Mi mandava la base, gli ricambiavo la traccia della voce. Non solo: mi sta insegnando anche a suonare le corde del pianoforte”.
Certo, le chords. Quelle giuste. Come i musicisti che suonano nel disco: Roberto Dell’Era (Afterhours) al basso, Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours, di tutti e di più) alla batteria.
“Davide Rosa, al quale Cesare ha fatto sentire i provini, era entusiasta e ha proposto lui di coinvolgerli. Un giorno intero, hanno suonato tutti gli otto pezzi. È stato magico vederli in azione. Gli hanno dato vita, energia”.
Perché proprio Milano?
“Non c’è un motivo vero. Io appartengo a questa città. L’ho vista crescere. È la vostra New York. Non importa come ti vesti, come sei. Puoi restare anonimo. E quindi libero”.