Lucio Dalla dieci anni dopo
Il cantautore era una silhouette di Picasso con il berretto del disco omonimo. E ricordava Picasso per i continui cambi di stile, tra esuberante classicità ed esperimenti fine secolo. Cosa resta di Dalla a un decennio dalla morte
La terra finisce, e là comincia il cielo. Tra la mezza e l’una del 1° marzo 2012, l’Italia scopriva di punto in bianco che per l’avvenire avrebbe dovuto fare a meno di Lucio Dalla, andatosene in pochi secondi, senza rendersene conto, nel bagno di una stanza di Montreux la sera dopo aver cantato “Le rondini”: un modo forse “indolore”, accettabile per tutti se paragonato per esempio all’addio di Mango, dal palco. Il mondo del prima e del dopo divisi da una corsa dal fornaio prima che chiuda, allo stesso modo in cui si è portati a chiederci dove ci si trovasse quando Pantani, quando Monicelli, Alberto Sordi, Battisti, Ayrton (chiudi gli occhi, e riposa): non era possibile immaginare che da qualche parte nel mondo egli morisse senza prodromi, poiché diamo stupidamente per scontato che gli artisti, le persone, esistano ed esisteranno.
Lucio Dalla manca ora più di prima: il tempo non è stato gran medico con l’eredità artistica di un tale unicum, né con la necessità di normare le successioni dei conviventi in assenza di un testamento. Quante stelle, quanta luna in quelle canzoni. E quanti motori, quanto Duemila, l’Emilia e la vita: guardava al suono, da appassionato del jazz, a differenza di altri grandissimi autori, vocati quasi al mero testo. E se all’ultimo festival di Sanremo il brano migliore non era in gara, ed era di Cesare Cremonini, è perché “La ragazza del futuro” è la figlia di quella “Futura” madre ormai quarantenne, lei in miniatura.
Al convivio ligure, solo dodici giorni prima della fine, Dalla aveva insolitamente diretto Pierdavide Carone, dimenticata starlette del piccolo schermo fogazzaro; nemmeno due settimane, e in via d’Azeglio al 15 non c’era più spazio per altre bamboline, striscioni, rose e biglietti. Fu l’inizio delle scritte sospese tra le case con i testi dei brani (dilagate in tutta Italia per altri): la casa del commendator Domenico Sputo ogni inizio marzo diventa leggenda, visita guidata, pellegrinaggio più facile che al mare di Termoli. E il 4 marzo 1943+69, trasmessi in tv, i funerali veri del portuale Gesù Bambino, vitalista pagano ancorché credente: come diretto da Pupi Avati, il partner Marco Alemanno recita “Il mio Gareth” di Auden, luce da Lucio. Un posacenere appoggiato sopra la cassa di mogano come valigia dell’attore per Haber, Iskra Menarini l’ideale interprete di un gospel laico e beone, rosso dotto e grasso, in assenza di alcun ritrovo postumo in musica per i fan accorsi da tutta Italia (ed è una morte un po’ peggiore). La piazza è colma, raccolta e civile come solo dopo le elezioni di Prodi: gracchiano le trasmittenti dei vigili, arrestati i plettri in libertà, dovunque cori spontanei con le canzoni. Erano là gli occhi verdi al finestrino del treno Palermo-Francoforte, Eleonora Giorgi in “Borotalco”, le madri che ci hanno insegnato ad amare le sue canzoni, la ragazzina bellina con lo sguardo garbato, gli occhiali e la vocina chiede chi era Bonetti alla compagna di zainetto. Silenzio irreale attorno alla fontana del Nettuno, chi dice di aver visto Bulgarelli e pure Bonvi, a ruba le fascette dalle bancarelle dei globetrotter, la speranza di non vedere in giro i sosia di Pavarotti o Bruno Vespa: perché non tutto è barzelletta, anche se le macchinette digitali sono scatenate (poi diranno “brutta”, ed elimineranno). Fuori, i morti per sogni davanti al Santo Petronio: la maglia del Bologna sette giorni su sette, i tortellini da Tamburini o da Atti, ma dall’altra parte della vetrina.
Morire dopo un 29 febbraio, perché bisestile era anche la sua musica, il personaggio: una silhouette di Picasso con il berretto del disco omonimo e della locandina, la parte per il tutto. E Picasso ricordava per i continui cambi di stile, tra esuberante classicità ed esperimenti fine secolo (“Ciao” - la colpa è di non so di chi - avrebbe potuto essere prodotta da Moby), il marchio di fabbrica che portò gli Stadio, sua backing band per anni, a vincere tra i fiori nel 2016.
Aveva la curiosità di un Battiato verso tutto, verso il nuovo, e faceva proprio lo spirito del tempo senza snaturarsi: là dove i colleghi in voga sono rimasti sostanzialmente astorici, quanto a produzione. Scoprì Samuele Bersani, e Luca Carboni che gli lasciò un testo all’osteria di Vito: come scout si occupò di lanciarli con lo stesso piglio che lo portò nel 1977 a pubblicare in forma canzone “Com’è profondo il mare”: il suo primo testo personale, svincolato dagli scambi di anidride solforosa con Roberto Roversi ("gli elaboratori hanno per sorte di aiutare l'uomo a vincere la morte"). Va da sé che se uno esordisce in proprio in quel modo, poi potrebbe pure vivere di rendita: invece fu “La sera dei miracoli” e “Quale allegria”, le più rivalutate del dopo Lucio. Merito anche dello stesso Carboni che interpretò magistralmente quest’ultima nel concerto-memoriale del primo anniversario, "anche sui tram e gli aeroplani, o sopra un palco illuminato, fare un inchino a quelli che ti son davanti (e son in tanti) e ti battono le mani"… La sigla scat di “Lunedì cinema” lo portava ogni settimana inconsapevole nelle case degli italiani: per giorni, dieci anni fa, fu tutto un compilare classifiche, indicare preferenze (“Piazza Grande” o “Attenti al lupo”?), come diventa importante che in questo istante ci sia anche l’io. Lui che qui sta morendo, noi che mangiamo il gelato.