Alessandro Fiori (foto di Stefano Amerigo Santoni) 

"Sono un fuoriclasse dello smarrirmi". Perdersi nel bosco con Alessandro Fiori

"In Plancton volevo disgregare la forma canzone. Con questo, forse per reazione, ho ritrovato la libidine di disegnarle e gustarmele, le canzoni"

Maurizio Baruffaldi

Dopo nove dischi con i Mariposa e a sei anni dall'ultimo lavoro da solista ecco il suo nuovo disco: "Mi sono perso nel bosco". Ci sono anche Brunori sas, Levante, Iosonouncane, Colapesce, Massimo Martellotta, Dente, Enrico Gabrielli. Quattro chiacchiere con "il cantautore preferito del tuo cantautore preferito"

Alessandro Fiori lo devi scegliere. E scovare. Nella storia della musica indipendente italiana. E nel bosco delle foreste casentinesi dove vive, con la moglie e due figli. Non pubblicava un disco da sei anni, e due settimane fa è riapparso con il nuovo: Mi sono perso nel bosco. Quasi a giustificarsi. Dodici tracce da seguire contemplando un paesaggio intimo. E ti ritrovi a camminare con in testa frammenti di melodie, immagini evocative e vicinissime, l’aria fresca e densa delle orchestrazioni. Volevo incontrarlo alla sua presentazione milanese, ma una sortita del Covid l’ha costretto a restare nel bosco. Ci incrociamo nello schermo Skype.

  

  

Nove dischi e più di 400 concerti con i Mariposa, alternandoli a collaborazioni e progetti dai nomi schietti e improbabili, tipo gli Scudetto, gli Amore e i Craxi. Poi la carriera solista, con l’apice di visibilità di Questo dolce museo, finalista della Targa Tenco, fino al Plancton del 2016.

      

Sei anni per trovare la strada, o ti sei perso volentieri?

“Il disco in realtà era pronto molto prima, poi i due anni di pandemia e il passaggio alla 42 Records… Ma è vero che vivo in un bosco reale e uno metaforico. Sono un fuoriclasse dello smarrirmi. Pensa che non posso andare a funghi da solo perché ho paura di perdermi. Smarrirmi nelle selve, e ritrovare il sentiero: è tutto ciclicamente così”.

  

Un astuto ufficio stampa ti ha definito: il cantautore preferito del tuo cantautore preferito. Ma solo se continui a vendere poco, mi viene da aggiungere.

“Forse“, e ride, e annuisce. “Rimanendo di pubblico contenuto, non motivo relazioni di invidia… Ma gli attestati di stima sono sinceri, reali, maturi. Pensa che Paolo Benvegnù mi ha dedicato una canzone, InfinitoAlessandroFiori, come ultima traccia del suo disco. Una cosa bellissima, e imbarazzante, anche. E poi mi hanno aiutato molto, e molti, a portare in fondo questo disco.”

 

  

La lista degli interventi comprende Brunori sas, Levante, Iosonouncane, Colapesce, Massimo Martellotta, Dente, Enrico Gabrielli. Li ho trovati tutti funzionali alla tua cosa, con discrezione e calore. Senza protagonismi.

“E aggiungo i produttori Giovanni Ferrario e Alessandro ‘Asso’ Stefana, insieme ai synth di Massimo Martellotta e Iosonouncane, che hanno sostenuto il carattere onirico del disco. Mi piace immaginare il nostro mondo come una squadra di gente che si aiuta, si suggestiona. Mi sembra una figata”.

   

Scandendo l’ascolto, ho ritrovato echi di tanti miei cantautori preferiti. Come se li avessi cannibalizzati.

“In realtà da giovane ho ascoltato approfonditamente solo Paolo Conte e Dalla. Ma forse certa musica era nell’aria. E l’ho elaborata. Banalmente anche il sanremese: dopo il Festival usciva la cassettina, che mio padre ascoltava in macchina. Forse anche per questo i miei ‘colleghi’ mi apprezzano: perché si sentono a casa.”

 

Il tuo ultimo disco Plancton era sperimentale, quasi ostico. Questo ti abbraccia, fa bene al cuore, fa venire voglia di condividerlo.

“Ti ringrazio. In Plancton volevo disgregare la forma canzone. Con questo, forse per reazione, ho ritrovato la libidine di disegnarle e gustarmele, le canzoni. Durante il lockdown abbiamo sentito il bisogno di trovare nuovi abbrivi vitali, modi di vivere, e l’effetto del disco è questo: spontaneo. Non ho tutta la smania di dimostrare chissà cosa. Il disco è fatto come la mia vita.”

  

E detto questo si alza, vedo solo la stretta barba per un po’, quindi un pezzo di cielo tra le fronde di un albero e ricompare il viso intero, che dondola nello schermo dello smartphone. Sta camminando, nel suo sentiero, e mi porta con sé. Perdiamoci nei ricordi, allora.

Sei partito dal violino. Lo strumento triste, lo chiamava mia figlia.

“Scuola media musicale, avevo scelto tromba. Ma l’unica classe era piena, mentre per violino c’erano posti. Forse proprio perché sembra triste. Quindi la tromba me l’avevano sconsigliata con la scusa dell'accavallamento degli incisivi, per depistarmi. Il violino è complicato, tra gli strumenti meno intuitivi e io non ero un bambino che si applicava molto. Da piccolo mi chiedevano sempre di portarlo, dai, che ci suoni qualcosa, anche i parenti, alle feste, e poi mi schernivano. Mi facevano notare le stecche. Ancora oggi mi faccio scrupoli a suonare in pubblico. Per non parlare dei saggi di fine anno: erano devastanti. Enrico Gabrielli, mio compagno nei Mariposa, e ora dei Calibro 35, mi ricordava che all'esame finale del Liceo Classico Musicale, me la feci sotto a tal punto che accampai la scusa che mi si era emozionato il violino.”

 

Il fruscio del vento scompiglia le parole di Alessandro. Che guarda dove mette i piedi e cosa ha intorno. Io resto con gli occhi sulla mia pagina e zampetto sui tasti.

Una sintesi dei 12 anni di Mariposa:

“La mia band madre. Vivevamo come un piccolo partito, quelli col ciclostile, arrancando, sempre a far riunioni, per decidere… Era complicato, macchinoso, ritrovarsi tutti, e poi l’attività concertistica, e ne abbiamo fatte di tutti i colori, dal teatro alla canzone d’autore, dalla contemporanea al punk... La cosiddetta gavetta. E così siamo cresciuti insieme, sovrapponendo l’uomo e l’artista, e ognuno ha coltivato uno sguardo personale. Adesso quasi tutti lavorano in solitaria, allora l'home studio era una rarità... Se a 18 anni ti mettono una canzone addosso come un vestito, tu non sei un musicista ma un indossatore.”

   

Ma il nuovo mercato premia anche ragazzi che scrivono e vivono quello che cantano.

“Verso la Urban sono un po’ in conflitto: da un parte devo essere stimolato dalle opportunità del meticciamento, dall’altra vedo troppe sclerosi narrative, che non riescono più a raccontare nemmeno una storia ai minimi termini, con un inizio e una fine. Si riporta il linguaggio dei social nei testi delle canzoni. Solo emozioni fugaci, che si risolvono nel momento in cui le ascolti. Dei meme musicali”.

 

In "Per il tuo compleanno", canti: "Tanto la mia (vita), è bellissima/ ho figli da guardare/ misurano il mio tempo/ con dei passi cortissimi". I figli cambiano l’inquadratura. E regalano energie inaspettate.

“Non sarà un caso che fino alla mia prima figlia non ho trovato la forza e l’urgenza di fare il solista. Poi ho imparato a potare. A focalizzare il tempo e a misurare le energie. E in questo tempo di pandemia e guerra, di smarrimento generale, viene da cercare conforto, fare cerchio intorno a qualcosa che è più universale, paradigmatico. Questo non significa che non bisogni continuare a perdersi nei boschi”.

 

La maggior parte dei brani sono scritti rivolti a una lei. In questo senso, le reputo canzoni d’amore. Amori nella boscaglia dei sentimenti. In "Amami meglio" dici: "Perché mi ami e mi ignori". Lei ignora quella che le stai raccontando. Perché ti conosce in anticipo, è allenata alla presenza, e le basta quella?

“Cerco, per amore di lei, di descriverla agguerrita, di trovarla reattiva, quasi a discapito della mia confort zone. Noi cosiddetti artisti siamo persone che richiedono tanto. Mi ami e mi ignori di conseguenza è, dopo l’effervescenza dell'amore iniziale, una richiesta di giusta distanza, tra le diverse personalità. Mi piace parlare di, e a una donna che non ha perso gli artigli. Che non sarà mai conquistata fino in fondo. Che anche se proiettata in una storia infinita non perda mai la sua unicità, le sue durezze. Ho capito che per stare insieme tanto tempo è necessaria una forma di scissione. Ma non è facile parlare d’amore in questi termini, senza farne un trattato sentimentale.” La canzone, può farlo.

   

Alessandro Fiori (foto di Stefano Amerigo Santoni) 

 

Domanda di sempre: un testo da cantare può essere poesia?

“La poesia è un'altra cosa. È più simile alla danza.”

 

Le tue sembrano invece brevi cortometraggi. "Una sera" è un pezzo tipo "Anna e Marco", sequenza di immagini che alla fine svelano, intero, il sentimento. A un certo punto canti: "Anche se sto male/ Io sto bene solo qui". La sintesi, anche qui, delle coppie che durano. Perché male si sta, a prescindere di chi ci ama, o che amiamo.

“La registrai al piano durante il primo lockdown e la diedi in pasto a Facebook. Lui torna a casa una sera, mentre lei sta dormendo. E si chiede di loro due. Una domanda che potrebbero farsi due anziani: com’è successo tutto? E alla fine dice Come un matto che accetta il suo mistero. Alla fine superi le domande, e leggi tutto in senso spirituale, quasi religioso.”

 

In "Fermo accanto a te" gli artigli sono quelli di Levante, quel suo miagolio feroce, che dice Io no, mette i brividi. Lui prega, vuole scopare, forse, forse no. Usa termini come abbiamo toppato, propone di vedere Netflix, e un film spaziale ("Interstellar", intende), insomma è basico. Anche la musica è disinvolta, ballerina. Lei lo rimbalza, quasi al disprezzo. Lei ha già visto, non cede, già sa.

“In quel pezzo dice: Ma per chi mi hai preso/ per una tua bambola gonfiabile? Quella frase l’ho ricevuta davvero. E mi congelò. Il lui della coppia si potrebbe spingere fino all’essere un po’ penoso, fino alla quasi pietà. È tragicomico. Mentre la scrivevo pensavo alla Bertè, più dura, più respingente, ma l'interpretazione di Levante lascia senza fiato. Una voce di ciniglia che ingigantisce in lui il desiderio...”

 

La Bertè rischiava di farsi il verso. Il felpato di Levante emoziona. Così come emoziona L’appuntamento, il rivolgersi a una amico che è morto, definendolo una polvere sottile, che non ha mai inquinato. Una presenza che si infila ovunque, ma con discrezione.

“Te ne accorgi quando non ci sono, quanto ti stavano dando, scegliendo in quel momento di tacere.”

  

Ma non "Troppo silenzio", dove "La vita è solo un sogno/ dimenticato da un altro sogno/ che s’è svegliato di soprassalto/ perché ha sognato troppo silenzio/ e si è spaventato". E sapere che ci sarà un’altra "Estate": "Ti guardo le cosce abbronzate e sono di nuovo geloso".

“È la frase che risveglia l’amore. La speranza di ripartenza. Ma lo penso dell’umanità tutta. Dopo quello che sarà, il ‘motore del sentimento umano’ dovrà scoprire di essere di nuovo geloso”.
 

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