Ronela Hajati, rappresentante dell'Albania all'Eurovision Song Contest (foto LaPresse) 

reportage

In attesa delle canzoni, all'Eurovision la “brotherhood” passa per l'Apparenza

Claudio Giunta

Un chilometro e mezzo di Turquoise carpet. Tra maschi fluidi, femmine iper-sessualizzate e siparietti in italiano. Ma per il resto la vigilia della gara a Torino scorre tranquilla (e piuttosto ripetitiva)

"Quanto è importante diffondere fratellanza [brotherhood] attraverso la tua canzone?”. Dovete immaginare di essere molto giovani, un po’ emozionati perché siete appena arrivati da Stoccolma o dalla Valletta o da Baku e vi trovate in mezzo a tanta gente che agita bandierine nel parco della Reggia di Venaria Reale (TO), con addosso un vestito simpatico ma ingombrante – cosa rispondereste, voi che fate i sopracciò? In inglese, poi: lingua che la speaker di questo “Turquoise carpet” dell’Eurovision Song Contest (Esc), Carolina Di Domenico miracolosamente padroneggia, ma lei sola o quasi tra gli italiani, mentre soprattutto i balcanici parlano con un umiliante accento di Oxbridge. Ma questo è niente. Come ve la cavereste, che cosa rispondereste le altre trentanove volte in cui più o meno la stessa domanda vi verrà posta da uno dei trentanove giornalisti radiotelevisivi europei o limitrofi che vi aspettano per “una battuta di un minuto” alle varie stazioni di questa via crucis?

Il “Turquoise carpet” dell’Esc di Torino non ha solo un colore diverso da quello degli Oscar ma è anche infinitamente più lungo, a occhio e croce un quarto di chilometro, da ingresso monumentale a ingresso monumentale, perché quaranta partecipanti vogliono dire quaranta stazioni radio-televisive o canali Instagram o TikTok, quaranta intervistatori sgranati sul percorso, quaranta photo op, più un numero imprecisato di selfie, pacche sulle spalle e strette di mano con i fan (strette di mano alte, rarissime quelle basse, novecentesche): si comincia alle quattro e si arriva in fondo sorridenti ma stremati verso le cinque e un quarto cinque e mezza, intontiti dalle domande sull’outfit, la brotherhood e che impressione vi ha fatto Torino. E insomma è una festa, ma ci vuole prontezza di spirito, indole gioviale e anche una certa resistenza fisica, anche perché verso le cinque comincia a piovere, uno scroscio forte e poi pioggerellina: i bravi organizzatori ci avevano pensato, perciò si aprono subito tanti ombrelli colorati rètti da una legione di “volontari” (ci torneremo), ma camminare sorridere mettersi in posa rispondere in inglese infagottati da questi abiti-sculture che cominciano a infradiciarsi è una prova che non so quanti avrebbero la tempra di sostenere: lo show business è anche un fatto di resistenza fisica. O forse è la gioventù: sopra e intorno al “Turquoise carpet” l’età media percepita è di venti venticinque anni al massimo, l’età della spensieratezza (quella reale naturalmente è un’altra cosa, abbondano i quaranta-cinquantenni che ne dimostrano dieci o anche venti di meno, io tra questi: ma, come con l’umidità d’estate, conta il percepito).

Ma è rimasta in sospeso la domanda intorno alla brotherhood. Molto: conta molto diffondere la brotherhood, soprattutto in questi giorni in cui il fantasma della guerra torna dopo tanto tempo a funestare, eccetera. Poi, dato che le canzoni non si sono ancora veramente sentite, o si confondono, o – diciamolo – non sembrano memorabili, conta appunto quella cosa deliziosa che è l’Apparenza, vale a dire il vestito + il corpo, con particolare riferimento al capello e alle zone erogene, per le femmine, e al capello e alla barba, per i maschi: ma con una complicazione che rende il quadro più interessante ma anche meno facilmente leggibile da parte del non esperto, una complicazione che potrei anche non essere il primo a notare, e cioè che i confini tra i sessi si sono fatti – to coin a phrase – “fluidi”, e c’è una certa generale femminilizzazione, nei maschi, con grande cura per esempio delle sopracciglia (ma anche più decisamente bacio in bocca tra cantante israeliano e cantante – credo, posso sbagliare – romeno, a grande richiesta degli astanti: “Kiss, kiss, kiss!”), mentre invece le femmine sono più normalmente iper-sessualizzate, e quasi tutte di bellissima presenza, e peritissime nei movimenti, nei sorrisi, anche perché molte già ben rodate in trasmissioni televisive (la maltese Emma Muscat ha fatto Amici con la De Filippi, e qui si palesa in una specie di abito da sposa rimodellato a bikini) o in sceneggiati e musical (Chanel Terrero, cubana ma in forza alla Spagna, “che vanta esperienze in spettacoli come Il re leone, Flashdance, Mamma mia”), o semplicemente perché in venticinque anni devono aver accumulato più esperienze di quante ne abbia accumulate io in cinquanta (la deliziosa Andromache, di famiglia greca ma cittadina tedesca, però in gara per Cipro, “studentessa di Filologia germanica ad Atene”: a lei, sulla fiducia, il mio voto). 

 

Quindi in fondo, a parte che siamo in casa dei Savoia, tutto è abbastanza normale: le ragazze belle e spigliate e simpatiche; i ragazzi strani e chiassosi, coi più ruffiani che improvvisano al microfono qualche tremendo evergreen del repertorio italiano, tipo Con te partirò e Caruso, per la delizia di un pubblico di teen-ager per i quali – il tempo passa, il Male trionfa – Lucio Dalla è appunto “quello di Caruso”. Dopodiché, sul mio personalissimo cartellino (e senza naturalmente aver ascoltato neanche un secondo delle canzoni): Premio Fantasia ai norvegesi Subwoolfer, che oltre a dedicare una mini-canzone e un mini-video a Torino si presentano travestiti da lupi con una canzone su un lupo (Give that wolf a banana), e con una bella scenografia che ricorda un po’ quella di Gangnam Style. Premio Outfit al trio della Repubblica Ceca We Are Domi (“Oh, Do-mi-ni-ka, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi…”). Premio Simpatia ai bulgari dell’Intelligent Music Project, che mi pare siano più vecchi e saggi e vissuti di tutti gli altri (e forse anche più bravi, musicalmente parlando), ma stanno al gioco con deliziosa nonchalance.

Ero anche pronto a dare un premio agli ucraini – è chiaro che siamo qui per questo – ma temporeggio. La loro canzone (Stefania, dedicata alla mamma del cantante) è un miscuglio strano, devo dire non gradevolissimo, di folk mediorientale e hip hop, e loro, i cinque della Kalush Orchestra, si sono presentati con facce serissime, truci (il che è giusto, data la situazione) e senza una parola di inglese (il che va bene: come Achille Lauro, che ha l’interprete), ma anche con delle camiciole nere con mostrine giallo-blu al colletto che i maligni – non io – potrebbero misinterpretare.

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