(Foto di Ansa) 

L'arma più forte

L'Eurovision a Torino scopre la tragedia italiana di un inglese ridicolo

Claudio Giunta

I Jalisse tornano in cattedra, dopo aver incassato il rancore del quarto posto alla rassegna europea del 1997 e parecchi rifiuti a Sanremo: il risultato è una versione zoppicante della loro hit di 25 anni fa

Primo: tutto avrei immaginato nella vita tranne che vedere i Jalisse che cantano Fiumi di parole nell’Aula Lauree dell’Università di Torino.

Secondo: questo paese – non so se sono il primo a notarlo – ha un grave problema con la lingua inglese.

Ma andiamo con ordine.

 
L’Eurovision Song Contest (Esc) si porta dietro uno strascicone di eventi paralleli, sia nel settore “Musica” sia nel settore “Riflessione sull’Esc”. Nel settore “Musica” c’è stata questa ottima idea del Comune di Torino: montare un palco al parco del Valentino e riempirlo pomeriggio e sera di cantanti italiani e stranieri, tra questi anche molti dei partecipanti all’Esc che si tiene al PalaOlimpico, tutto gratis (cioè, mai niente è gratis nella vita: pagano un po’ gli sponsor e molto il Comune, ma per una volta sembrano soldi molto ben spesi); stasera per esempio (ieri per chi mi legge) torna sul palco insieme alla Bandakadabra uno dei due Righeira, Johnson, e io ci vado insieme a un gruppo di nostalgici per ritornare al 1983 di Vamos a la playa, l’ultimo anno in cui siamo stati felici; e a seguire i favoriti dell’Esc, la Kalush Orchestra dall’Ucraina, e (tra i miei preferiti) i norvegesi Subwoofer, quelli con le maschere gialle da lupo. C’è però anche un florido settore “Riflessione sull’Esc” che non mi ero aspettato, ma a torto, perché trattandosi di uno dei più grandi eventi mediatici del mondo è chiaro e anche giusto che gli studiosi dei media se ne occupino con gli strumenti della cosiddetta “ricerca scientifica”. Se si studia la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), perché non si dovrebbe studiare l’Esc, che è stato tanto più influente, e ha interessato e interessa tante più persone? 


Devo dire che fino a qualche mese fa sarei stato meno ecumenico (studiare le canzonette già si giustifica a fatica, ma i contenitori delle canzonette!?), e anzi pensavo di andare a vedere l’Esc più o meno con lo spirito di Zola a Lourdes (in sintesi: non simpatetico, a dire poco), poi però ho ricevuto un’email da una mia studentessa russa che diceva: “… seguo il concorso dal 2012, nel 2015 mi sono innamorata di Grande amore de Il Volo, ma talmente tanto che nel 2016 ho scelto l’italiano come seconda lingua straniera all’università! Quindi dovrei ringraziare Il Volo per la spinta iniziale e per il fatto che adesso sono qua” (no, non ho cambiato una virgola dell’email, in cinque anni la ragazza è diventata praticamente bilingue, e l’italiano era, dice, la sua seconda lingua straniera: quando tutto questo casino sarà finito dovremo tornare a riconoscere quanto possono essere fichi i russi). 

 
Più che opportuna la riflessione intorno al fenomeno, dunque, e per questo l’Università di Torino la settimana scorsa ha organizzato un grande e serio convegno su “Song Contest/Song Context. Transmedia Perspectives on Eurovision”, con relatori da mezzo mondo, proiezione di film e documentari sul tema, presentazione del nuovo testo di riferimento Eurovision Song Contest. Una storia europea di Dean Vuletic, a cura di Fabio Guarnaccia e Luca Barra, minimum fax, 2022. Credevo fosse già molto, invece era solo la punta dell’iceberg. Sotto il pelo dell’acqua, in città, mille altre iniziative a cura dei fan e degli, usiamo finalmente questa parola, stakeholder dell’Esc, che sono – lo scopro a mano a mano che mi documento, a mano a mano che fioccano gli inviti attraverso le mailing list più impensabili – legione.

 

Così finisco appunto in uno dei nuovi palazzetti dell’Università di Torino a seguire una “Conferenza internazionale” parte online (centinaia di contatti) parte in presenza (una dozzina di aficionados) organizzata da questo Eurovisions Research Group, una – traduco – “squadra di ricercatori di vari paesi che studia l’Esc come fenomeno interdisciplinare”. Sarebbe probabilmente un abisso di noia se, per ragioni che ignoro, l’incontro non fosse impreziosito dalla presenza del duo dei Jalisse, vincitori di Sanremo 1997 (edizione non facile: c’erano Patty Pravo, Nek, Ranieri, Anna Oxa, la Bertè: cioè più o meno quelli di oggi), quarti classificati all’Esc del 1997, con polverone di polemiche perché si disse che la Rai si era messa di traverso per non farli vincere. Dopo quell’exploit, venticinque anni di ostracismo, venticinque tentativi di tornare a Sanremo sempre fallimentari: e venticinque fallimenti ci stanno anche, un po’ sarà anche colpa loro, ma il testimone imparziale (io) deve anche ricordare che sul nome dei Jalisse si concentrarono subito cattiverie e ironie degne di miglior causa (i “Già lessi” e simili): lo show-biz italiano spesso esalta senza motivo, ma ogni tanto senza motivo si accanisce, e insomma i due Jalisse, che tra l’altro sono molto simpatici (anche in una certa ruspante ingenuità: riferendosi a sé stessi dicono “i Jalisse”), meritavano miglior fortuna.

  

Ma dove si chiude una porta – venticinque porte, per la verità – si apre un portone: sta per uscire, dopo quella spagnola, una versione inglese di Fiumi di parole (che, riascoltata dopo tanti anni nell’Aula Lauree dell’Università di Torino, praticamente a cappella, resta bellissima) e potrebbe essere questa la chiave per riacciuffare il pubblico dell’Esc, anche perché i Jalisse concorrerebbero volentieri per altre nazioni (si può fare, pare: lo fa quest’anno Achille Lauro per San Marino). Contestualmente, e qui devo dire che torno un po’ Zola a Lourdes, apprendo che esistono non uno ma vari fan club dell’Esc in tutte le nazioni europee; e che all’interno di questi fan club si sollecita la produzione di vinili delle canzoni dell’Esc a beneficio dei collezionisti, meglio se in formato cofanetto. 

 
Dicevo dell’inglese. A parte la Di Domenico, Cattelan e la Pausini in tv, andiamo male. L’ultima generazione che ha fatto francese a scuola dovrebbe essere vicina alla pensione, ma sembra che tredici anni di inglese tra elementari medie e superiori non bastino a metterci al livello non dico dei russi ma degli spagnoli, dei montenegrini. Ci dev’essere qualcosa che non va nella didattica, nei libri di testo, nella conformazione dei palati italiani: l’inglese che si sente in giro, attorno all’Esc, farebbe arrossire Renzi; Conte, persino. Non una parte ma tutti i fondi del Pnrr dovrebbero essere investiti in questa missione impossibile: farci imparare decentemente la lingua di Scespir. 

 
Ah già, la semifinale. Al terzo ascolto tutte le canzoni sono belle; probabile che al quinto faranno tutte schifo, ma non è questa la commovente, sublime essenza del pop? La stessa consistenza delle infatuazioni adolescenziali, e la stessa durata. E dal momento che quelle infatuazioni sono ciò che abbiamo avuto di meglio dalla vita, tutta questa agitazione si spiega. Comunque per me, su tutte, la canzone olandese: a mani basse.

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