"Prima di tutto il pubblico crede all'emozione della musica", dice l'ex Police Stewart Copeland
Il compositore è a Milano per promuovere "The Witches Seed", opera rock della quale ha scritto le musiche e che debutterà in prima mondiale in Piemonte. Protagonista in scena Irene Grandi. La ricerca dell'origine del suono, Coppola, il Salento e New Orleans. E un’arma musicale
Quando ho saputo che l’avrei incontrato sono andato subito a cercare il disco che dal 1985 stava impettito tra i vinili, nello scaffale vintage. The Rhythmatist. Il traduttore dice: ritmista. Il suo primo dopo l’abbandono dei poliziotti che hanno sincopato e stravolto il punk. E l’ho messo nello zainetto insieme a una manciata di domande. Stewart Copeland, prima fondatore e batterista dei Police poi compositore solista, è di passaggio a Milano per promuovere The Witches Seed, il seme delle streghe, opera rock della quale ha scritto le musiche. “La chiamiamo opera rock per comodità” dice il regista Manfred Schweigklofer, “in realtà è una contaminazione di forme difficile da definire. Se voi siete curiosi, lo siamo anche noi”, chiosa. Una storia che nasce ispirata a fatti realmente accaduti, tra Inquisizione e leggende, persecuzioni e pregiudizi dannati, e riverbera col lato più oscuro del nostro piccolo tempo digitale. Ospiterà la prima mondiale, il 22 e il 23 luglio, il Tones Teatro Natura, spazio realizzato in una ex cava di granito, a Oira Crevaldossola, in PIemonte. Ci sono alcuni brani scritti da Chrissie Hynde, dei Pretenders, e protagonista in scena sarà la nostra Irene Grandi. “Dopo la pandemia, era bello, necessario, non essere più quella che traina, ma essere parte di una cosa corale. Sono una cosiddetta ‘strega’ che aiuta le altre donne ad accettare la loro diversità, che è naturale, di tutti. Sono levatrici, dottoresse, erboriste, che lo sguardo del ‘cattivo’ vede invece indiavolate, sessuali, pazze”.
“Language is a melody”, sintetizza Copeland quando in sala stampa gli chiedono l’approccio alle musiche. Ha letto, anche a voce alta, il libretto coi testi, e ne ha assorbito il suono, dice. Poi si è divertito a creare contrasti, tra il senso del detto e l’umore opposto, della musica. “Il pubblico crede prima alla musica, a quella emozione”.
Quando finalmente mi siedo di fronte a lui, nel tempo del mangiare qualcosa, sfilo il mio trofeo, con la copertina dove saltano, rigidi e altissimi, un gruppo di africani che potrebbero essere Watussi. Ma siamo agli antipodi di Edoardo Vianello. Gli chiedo di autografarlo, e lui fa la faccia divertita, immagino per il contrasto tra la mia evidente stagionatura e il gesto da fan brufoloso. Impugna la penna e scrive, faticando a lasciare il segno sul cartone lucido.
Un disco che è un po’ il seme della tua seconda vita, da compositore.
“È stata un’idea molto naturale, andare in Africa, perché non mi sentivo più a casa, nel primo mondo, quello del West. Sono andato alla ricerca dei suoni all’origine di tutta la musica americana, quello che vedo come tipicamente americano, e che ci distingue. E non l’ho trovato, in Africa. Il suono americano è stato riprodotto a New Orleans, e lì che nasce. È il suono della batteria. Questa combinazione, alla base di tanta musica, anche elettronica. Il basso puoi farlo col piede, poi suonare lo snare con un braccio, e le altre parti ancora...” e mentre mima fluido anche la voce fa groove. “Adesso sta un po’ cambiando la direzione, piano piano, con Kanye West, Kendrick Lamar, ma resta il fatto che tutta la cultura americana è black. Quello che è più significativo, è nero. The rhythm”.
Arriva una pietanza dai colori sgargianti. Una composizione vegetariana. “Look fantastic” dice, sorridendo dietro gli occhiali.
Poco prima di questo disco, hai eseguito la tua prima colonna sonora, Rumble fish. Per la mia generazione un film feticcio. Con attori che hanno poi segnato il ‘nostro’ cinema, su tutti Mickey Rourke e Dennis. Cosa è successo con F. F. Coppola? In fondo, in quel momento eri solo un batterista, anche se straordinario.
“È stato il figlio di Coppola, che era un grandissimo fan dei Police, a dirgli che doveva coinvolgermi. Anche io ai miei figli chiedo sempre: cos’è che è trendy?”.
Intanto dice, con espressione di stima, che Francis era un compagno high concept. E mima una bella aspirata. Cannabis, dico. Marijuana, precisa lui. Mi aggiorna sul doppio senso di high concept, che in inglese è l’idea alta, concisa e meravigliosa, ma vale anche per quel sigarettino che stona e stimola.
“Ho usato il suono della citta di Tusla. Ho registrato le auto, quello dei fans di Coppola che arrivavano, ma anche il suono del ventilatore… Lo volevo più forte, e allora Coppola gli ha dato una botta, l’ha mezzo sfasciato, e quello è ripartito più deciso e sbilenco. We create the soundscape. Con il biliardo, abbiamo fatto il ritmo…” e imita il suono dei rimbalzi della pallina sulle sponde, che partono pieni e vanno a scemare. “Bobina magnetica messa in cerchio, intorno alla stanza, il suono della pallina da biliardo che rimbalza, fa un riverbero, campionato e messo in sync. Pure i cani in sottofondo, tutte le bobine erano in sync nei fader. Qualcosa che abbiamo concepito con Francis. Un concetto nuovo, era quello che ci piaceva fare…”
In tutti i tuoi infiniti lavori da compositore, ho sempre l’impressione di un cercare o riesumare radici, e poi di campi lunghi, di un suono che insegue un qualche orizzonte.
“Un po’ astratto… Ma sono contento che faccia questo effetto”.
Ha qualcosa da spartire con tua madre archeologa?
“Sono cresciuto in quello che chiamiamo terzo mondo (il padre era agente della CIA con contatti in medio oriente, ndr), e da giovanissimo sono stato immerso nella musica arabica, mediorientale. Non credo c’entri molto con mia madre, che era una donna profondamente scozzese”.
Una frase che ricordi di lei, che ti ripeteva.
“Oh, sì. Lei faticava a buttare le cose, come tutti gli scozzesi, che avevano conosciuto la povertà. La frase è: Perché lo butti via, è ancora in buono stato!”
Mia madre nata vicinissimo al Salento diceva lo stesso. E arriviamo alla Notte della Taranta. Dopo di te, maestro concertatore, è diventata un’enorme adunata internazionale.
“Quella partecipazione è capitata quasi come incidente di percorso, invitato dalla direzione artistica di Vittorio Cosma e Titti Santini, e dal sindaco di Melpignano Sergio Blasi. Poi la cosa è esplosa, e siamo andati in ogni parte del mondo, e ovunque la gente impazziva. C’erano le fisarmoniche, e tamburini e tamburelli, ma non quelli della musica folk, erano tamburi di guerra… Si creava questo mega suono, questa festa, questo ritmo melodico, potente e riconoscibile e riconosciuto. Perché sono ritmi semplici ma anche universali, nascono dalle tante culture che si incontrano, che si incrociano…” E con un verso grave di soddisfazione aggiunge: “Mi hanno dato le chiavi della città di Melpignano”.
E sarà per la pistola del tempo puntata alla tempia dell’ufficio stampa alle mie spalle (aspettano Stewart in Radio Deejay, o per la guerra che aleggia sempre e comunque, gli chiedo quale arma userebbe per un duello. Aspettandomi di risposta, con poca fantasia, le bacchette. Ci pensa un po’, prima di trovarla.
“Un blunderbuss. Quel fucile che spara al massimo a 50 metri. Poi chiederei un duello a duecento metri. Non voglio uccidere nessuno”.
Vedendomi poco preparato, mi fa il disegno nell’aria di un archibugio, con canna che si apre, richiamando un grammofono, o una tromba. Insomma, un’arma musicale.