Io e il mio suono. La versione di Giovanni Falzone

Arriva a Milano con una valigia, 20.000 lire e una tromba. Resta seduto dieci anni nell'orchestra sinfonica Verdi poi si alza, ringrazia, e salta nel mondo del jazz

Maurizio Baruffaldi

Giovanni Falzone arriva a Milano con una valigia, 20.000 lire e una tromba. Resta seduto dieci anni nell’orchestra sinfonica Verdi poi si alza, ringrazia, e salta nel mondo del jazz. “Eravamo io e il mio suono che volevamo, dovevamo cambiare”. E iniziano le sconfinate produzioni come solista. In questi ultimi mesi sta registrando i brani della spettacolo andato in scena in anteprima al Blue Note: ‘Scover: un viaggio scomposto all’interno della canzone italiana’. Canzoni della memoria, rivoltate insieme al fedele trio Le mosche Elettriche. Lo incontro, dopo aver inseguito un buco libero dai suoi impegni, intasati anche dall’intensa attività di insegnante: in privato, al Conservatorio di Brescia, a Siena Jazz University e per Musica sociale, iniziativa unica e verace, approdata a Milano.

   

Un gattone mi si posa davanti e mi scruta imperiale. Quindi scendiamo in studio. Ombra. Spazio. Una grande sala, un piano, la batteria, al centro una tromba, a testa in giù, ma padrona. Sprofondiamo in un divano. 

  

Cover con la esse davanti. Che ribalta il senso. Lo nega.

"La canzone in sé, non c’è più. In quasi tutti i brani ho tenuto solo il ritornello, o una strofa. Spunti. Mi servivano le parole che dicono l’inequivocabile. Sul quale ho costruito la mia ‘orchestrazione’. Volevo raccontare il periodo che stiamo vivendo e sono andato a cercare le canzoni adatte per farlo".

  

Una rapida carrellata delle scelte.

“Luglio, agosto, settembre (nero) degli Area. Per la mia parte più militante, quella concentrata su chi subisce soprusi. Gli Area faticavano a essere passati in radio. Fino a quanto non sono stati santificati, come mi ha detto l’amico Patrizio Fariselli. E poi Taglia la testa al gallo, di Ivan Graziani. Taglia la testa al gallo se ti becca della schiena. Rivolto a queste figure di capetti, di borgo, di quartiere, che fanno i boss. Liberiamoci da queste persone. Il resto è tutto strumentale”.

 

Come nascono gli strumentali?

"Trattengo magari un riff, o un frammento melodico del pezzo, e intorno a quell’umore costruisco la mia composizione. Anni in un orchestra sinfonica, lo slancio esplorativo del jazz, il rock nel quale sono cresciuto: tutto passa dall’incontro di queste tre pulsioni".

  

Vedo anche un fegato spappolato.

“Vasco era uno dei miei idoli, dagli 11 ai 18, nelle strade di Aragona, paesino in provincia di Agrigento dove sono cresciuto. In questo brano c’è ribellione, ma anche pregiudizio: è chiaro che sono drogato! Io non mi sono mai fatto nemmeno una canna in vita mia, ma la prima di cosa che mi dicono quando mi vedono sul palco: 'Ma cosa ti sei fatto?' 'Un piatto di pasta', rispondo. Il palco mi fa quell’effetto”.

    

La libertà. Nella partecipazione.

“Un ritornello stupendo. Al Blue Note è stato da brividi. Lo cantava tutto il pubblico, in coro. Amo Gaber perché prima del teatro canzone era un personaggio televisivo. Era lì dentro. Poi si accorge che non era più il suo posto. Doveva dire le sue cose. Lo sento vicino… L’unico testo che ho usato intero è Don Raffaè. Perché c’è tutto: la connivenza tra lo Stato e l’Antistato. E tutti in pace”.

  

 

Me la fa sentire dalla performance in diretta a Radio Tre. La sua voce ruvida tiene il beat, quasi rappato.

Un trombettista sa per forza cantare?

“Assolutamente. Io a miei studenti gli faccio un mazzo così, perché tutto quello che suonano lo devono prima saper cantare. Questa è la regola,” dice e solfeggia al volo un motivo, con voce da tromba. “Se non lo sai fare non si può andare avanti. La tromba suona il canto. Ha tre tasti e vive di armonici. Di venti e vibrazioni”.

  

C’è anche il Celentano di Prisencolinensianciuol e Svalutation. Incomunicabilità, ed eterno presente. Ma anche quattro pezzi suoi, scritti per l’occasione. Uno è Buoni e Cattivi, che non è Bennato. Buoni e cattivi, reattivi e meno attivi, siamo tutti parte di giochi compulsivi.

Giovanni non smette di strofinare tra loro le mani, togliere e infilare un grosso anello d’argento, far ruotare il braccialetto.

Hai iniziato a suonare a 18 anni.

“Ad Aragona, prima suonavo giusto il tamburello nei gruppi folkloristici, o cantavo nei festival per bambini… Poi, una festa sotto Natale, i musicisti fanno pausa, appoggiano gli strumenti sul tavolo. E vedo questa tromba sdraiata. Vado dal trombettista, un ragazzo del mio paese, e gli chiedo se me la fa provare. Mi spiega il minimo, io provo, esce il suono. Pensava l’avessi preso in giro. Poi mi chiede di stringere, per l’armonico superiore, e mi veniva”. Qui Giovanni fa partire una pernacchia stretta e assordante. ”A far uscire quegli armonici lui ci aveva messo un anno. E mi disse che dovevo andare dal maestro. E così io ci penso, e ci penso… Poi sai, vita di paese, d’inverno non c’è niente da fare, alla fine, a gennaio, vado dal maestro della banda, gli racconto, mi ascolta, mette la tromba nella custodia e mi dice: questa è tua, fino a quando non te la compri. Appena ti viene fuori qualcosa vieni a farmela sentire”.

 

Nessun’altra indicazione.

“Sapeva com’ero. Se mi avesse dato da studiare solfeggio, e fare esercizi, avrei abbandonato subito. Non era per me. Invece mi ha detto: conoscetevi. Ricordo che muovendo questo tasto tre, tiravo fuori una melodia scarcassata di In the mood, di Glen Miller. Ero gasatissimo e sono volato da lui. Da quel giorno passavo il tempo a suonare, con le tracce al pianoforte del maestro da seguire su una cassettina, nel mitico registratore Geloso. Mia madre pensava che mi fossi ammalato. Non mi aveva mai visto a casa. Le prime volte bussava, e chiedeva: Ma tutto a posto, Giovanni? Ero sempre stato in strada, ribelle, dispersivo”.

 

E arriva la tromba a regalarti disciplina.

“E anche amore. Che devi coltivare sempre. La tromba è così: quello che fai oggi non è detto che domani vien fuori. Finché non esce non puoi gioire. E scoraggiarsi è un attimo. Ogni giorno, ti alzi, e suoni. Come fossi un atleta. Il muscolo che abbiamo qui”, e stringe con le dita intorno alle labbra, “è il più debole, quindi devi tenerlo sempre allenato. Io vado in vacanza e mi porto la tromba. Non stacco mai. Almeno un’ora al giorno…. Però è bellissimo, ci sputi dentro l’anima, il tuo soffio”.

 

Mette la mano aperta come un ragno al petto. Come a indicare da dove esce, questa anima.

“È per questo che ho lasciato l’orchestra sinfonica, dopo un migliaio di concerti. Avevo bisogno di esprimermi con tutto il corpo, e la musica di repertorio non te lo permette. Se suoni in una orchestra devi soprattutto immedesimarti nella canna di un organo. Presti il timbro in virtù dell’orchestra. Che ha un suo suono. Di insieme. Un suono che la distingue. Per rientrare in quella sua bellezza, ho lavorato per anni, poi basta: volevamo stare solo io e il mio suono. Che cambia con te”.

  

 

Mentre parla Giovanni si muove in continuazione. Il divano non è il suo posto.

Quanta Sicilia c’è, nel tuo stare sul palco?

“Io sono nato nel fazzoletto di terra delle Maccalube. Sono vulcanetti naturali, di argilla gassosa, che ogni tot hanno bisogno di esplodere. Un fenomeno di ribaltamento naturale e periodico. Che purtroppo qualche anno fa ha ucciso due bambini. Una tragedia che mi ha segnato. E ci ho scritto un brano. Ne ho postato il video settimana scorsa. Resta, che io sono un figlio delle Maccalube. Ogni tot anch’io ho bisogno di ribaltare le mie certezze. Rimescolare”.

  

Ma insegnare, sempre e comunque. Parlami di questa ‘Musica sociale’.

“La faccio in collaborazione con l’Aima (Associazione Italiana Musicisti Amatori). L’iscrizione è una cifra simbolica. Per anni ho avuto il privilegio di suonare in ambienti super professionali, però io vengo dal basso. E non dimentico chi sono stato. Se dimentichi quello non sei nessuno, perché vuol dire che ti sei perso. Credo nell’umiltà. Che non significa sminuire il tuo valore, figurati… L’umiltà è riconoscersi nell’altro. Riconoscere, l’altro. Sai quanti sono che suonano e sognano, anche se non hanno talento? Io quella gente non la voglio dimenticare, e quindi quello che so lo metto sul tavolo. Ci trovi il musicista bravino, e quello che si porta il legnetto o due nacchere. E magari per un po’ sta solo lì, seduto”.

 

La prima cosa che insegni.

“Metti quel tanto o poco che hai, che puoi dare. Suona quando pensi che il tuo intervento non vada a rovinare il lavoro degli altri. Devi aggiungere. O lasciare le cose come stanno. Facciamo in modo che lo scopo sia esserci".

  

Torniamo alla partecipazione Gaberiana.

“Sì. Poi c’è quello che non ha mai suonato in pubblico, e appena prende lo strumento in mano si mette a tremare e non gli esce niente. Cerco di fargli passare la paura, e questo nucleo quasi parentale aiuta”.

  

Usi sempre il verbo uscire. La musica esce. Perché c’è già.

“Il suono esiste prima dell’uomo. Nasciamo con l’optional incluso di suono e ritmo. Le musiche non si possono separare. E noi insistiamo, da stupidi, a suddividere i generi. Per fortuna è arrivato il jazz, che è stato un uragano: tu avevi interrato il fiume, messo le aiuole, e quello ha scombinato tutto. Ma parlo di quello intelligente, non quello dei talebani. I cosiddetti puristi. Incasellare significa uccidere l’espressione. Una delle prime registrazioni storiche di jazz è quella di un siculo che si era trasferito a New Orleans per lavorare e si era portato il suo violino”.

 

A quel punto Giovanni si alza, e va impugnare la tromba.

“La tromba non ha via di mezzo. Non si presta alla mediocrità, altrimenti di colpo può diventare fastidiosa. Quando invece la suoni con costanza, e dedizione, diventa uno strumento divino. Non a caso, per gli angeli hanno scelto una tromba”.

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