La più grande deflagrazione di talento che la storia ricordi. Elvis Presley è interpretato da Austin Butler nel nuovo film di Baz Luhrmann 

Elvis contro Elvis. Tutti i rischi di riscrivere la leggenda

Marco Ballestracci

Il film di Baz Luhrmann vuole trasformare il Re in un santo ma lascia un sapore stucchevole

Non potevo evitare di assistere al primo spettacolo nel primo giorno di programmazione di “Elvis” di Baz Luhrmann. Sono una di quelle persone che ancora si commuovono quando ascoltano, per l’ennesima volta, “Suspicious Mind” e “In The Ghetto” (perciò mi sono commosso durante lo scorrere dei titoli di coda) e che si esaltano quando Elvis strilla “Well, since my baby left me / I found a new place to dwell / It’s down at the end of the Lonely Street / At Heartbreak Hotel”, benché, in realtà, sia una canzone triste. Ma sono solo l’ultimo d’una schiera di fan che vanta al suo interno calibri giganteschi che ne coltivano il mito. Per esempio, all’inizio della primavera del 1976, Bruce Springsteen intraprese la seconda parte del “Born To Run Tour” e percorse con la E-Street Band le più grandi sale da concerto del Midwest e del sud degli Stati Uniti d’America.

 

Springsteen a Graceland: “Quando torna, dica a Elvis che sono passato per salutarlo”.  “Certo ragazzo, certo”. L’addetto lo ricondusse al cancello

 

“Born To Run” fu il primo disco di enorme successo del cantante americano, che lo rese famoso e che gli consentì di essere immortalato, nell’ottobre del 1975, persino sulle copertine di Time e di Newsweek. Il 29 aprile del 1976 Springsteen suonò all’Ellis Auditorium di Memphis davanti a diecimila persone. Dopo alcune ore dalla fine del concerto guardò il suo chitarrista – Little Steven Van Zandt – e disse: “Saltiamo su un taxi e andiamo da Elvis a Graceland”. Per chi non lo sapesse, Graceland è la casa di Elvis Presley a Memphis, lungo un tratto della Highway 51 che dalla città va verso lo stato del Mississippi, che oggi si chiama Elvis Presley Boulevard. Quando Springsteen arrivò davanti al famoso cancello di Graceland guardò la casa e vide che le luci erano accese. Perciò, più o meno alle tre del mattino, pensò che Elvis fosse ancora sveglio e decise di saltare la recinzione per portargli i suoi saluti. Riuscì ad arrivare abbastanza vicino alla porta d’ingresso, ma un addetto alla sicurezza lo fermò e gli chiese se poteva essergli utile in qualche modo.

“Beh, ho visto le luci accese della casa e ho pensato che Elvis fosse sveglio. Volevo salutarlo”.

“Mi spiace, ma il signor Presley è a Las Vegas”. A questo punto Springsteen si rese conto che il suo gesto non era stato particolarmente intelligente, perciò, forte delle copertine di Time e di Newsweek, cercò di rimediare in qualche modo dandosi un tono: “Quando torna da Las Vegas dica a Elvis che Bruce Springsteen è passato per salutarlo”.  

“Certo ragazzo. Certo”. L’addetto lo prese per un braccio, lo ricondusse al cancello e lo lasciò sul marciapiede della Highway 51. Fortunatamente il tassista, abituato a questo tipo di situazioni, aveva deciso di rimanere sul posto così da riportare i furbacchioni in albergo, piuttosto che abbandonarli al destino nel Southside di Memphis.

  
Ogni volta che Springsteen racconta questo episodio lo fa con un’espressione del volto che sottintende: “Pensate che razza di imbecille sono stato a immaginare di poter incontrare Elvis. Voglio dire: ELVIS! Dovevo essere proprio fuori di me”. Perché nonostante Presley nel 1976 fosse il fantasma di sé stesso – imbambolato dagli psicofarmaci, peraltro prescritti dal medico curante, pesantemente ingrassato e, lo pensavano tutti, biascicante sul palco, tanto che non si comprendeva un accidente di ciò che diceva quando presentava le canzoni – continuava a essere Elvis: cioè la cosa più vicina a Dio che, negli Stati Uniti d’America, fosse possibile immaginare. Elvis non era materiale, come poteva essere, per esempio, il presidente Gerald Ford, che, in qualche modo, si poteva incontrare. No, Elvis stava un bel po’ di gradini più in alto, perché era la precisa personificazione di ciò che negli Stati Uniti gonfia i cuori e gli occhi di lacrime: il Sogno americano.

   
Certo, anche Abe Lincoln era nato in una capanna di tronchi nel Kentucky, l’antico omologo della casa mobile di Tupelo dove Elvis venne alla luce centotrent’anni dopo, ma Abe crebbe in una famiglia povera ma industriosa che gli infuse il modo di pensare che, con non poche difficoltà e tribolazioni, gli consentì di diventare, tappa dopo tappa, il sedicesimo presidente degli Stati Uniti.

 
Vernon Presley, invece, non era affatto il tipico uomo industrioso che indica la strada al figlio. Fu solo la più grande deflagrazione di talento che la storia ricordi, che per i calvinisti è una delle forme in cui si manifesta la benevolenza di Dio,  che rese Elvis, il fattorino e magazziniere della Crown Electric di Memphis, in poco più di un anno l’attrazione di cui si parlava in ogni angolo degli Stati Uniti d’America. Perciò non c’è nessuna spiegazione ancestrale al fenomeno Elvis, se non che Dio in persona, di punto in bianco, aveva deciso che il bambino nato in Old Saltillo Road (oggi Elvis Presley Drive) ad East Tupelo, nel Mississippi, l’8 gennaio del 1935, diventasse un mito, secondo solo a Lui (cioè solo a Dio).

   

    
Molto probabilmente, è questo che Baz Luhrmann ha sottovalutato: che, per quanto bravi registi si possa essere, è molto difficile fare un film su Dio e che, magari, visto che il Dio dell’Antico Testamento è piuttosto capriccioso, si può finire come quelli che cercarono di costruire la torre di Babele.

 
Ciò premesso, non si può affatto negare che Luhrmann non abbia cercato in tutti i modi di costruire un film all’altezza di chi voleva ricordare.

  

Gli appassionati hanno senza dubbio colto lo studio “matto e disperatissimo” del regista sulla biografia scritta da Peter Guralnick

 
Gli appassionati di Elvis hanno senza dubbio colto lo studio “matto e disperatissimo” del regista, o di chi per lui, sul testo più documentato e importante sulla vita di Presley, che è poi l’accoppiata di volumi “Last Train To Memphis. The Rise of Elvis Presley” e “Careless Love. The Unmaking of Elvis Presley”, scritti da Peter Guralnick (in Italia pubblicato in cofanetto nel 2004 da Baldini e Castoldi, in questo momento fuori catalogo). Uno studio così disperato che la sceneggiatura ricalca talvolta, paro paro, parte di codesta biografia. Luhrmann ha fatto bene, perché Guralnick è uno dei pochissimi autori che scrivono di musica – in genere afro-americana – che conduce alla rapida conclusione delle altrimenti interminabili discussioni tra appassionati, siglandole con un semplice “perché l’ha scritto Peter Guralnick”. Però è anche abbastanza immaginabile la voce nasale dello scrittore rivolgersi al regista: “Beh, figliolo, io c’ho messo più di dieci anni a scrivere la biografia di Elvis e ho solo otto anni più di lui, per cui l’America in cui è cresciuto la conosco abbastanza bene. E tu vorresti fare un film che parla di tutta la vita di Elvis? E quanto tempo lo vuoi far durare il film? Dodici ore?”.

 

A tratti Austin Butler, invece che l’interprete di Presley, sembra assumere le sembianze d’una delle tribute band che infestano il mondo

   
Bisogna pure sottolineare la cura maniacale con cui Luhrmann ha sezionato, fotogramma dopo fotogramma, i video che immortalano Elvis nel “’68 Comeback Special”, nell’“Opening Night in Las Vegas” e persino nello Steve Allen Show del 1956, per poi, con pervicacia ammirevole, far assimilare a memoria le movenze di Presley ad Austin Butler così che lo spettatore resti sconvolto dalla perfetta riproposizione dell’originale. Non fosse che, per disdetta, accade che oggi  le band tributo rappresentino uno dei cancri che più devastano la musica, così a più di qualche spettatore è parso che ogni qualvolta Austin Butler era immortalato sul palcoscenico, invece che l’interprete di Presley, assumesse piuttosto  le sembianze d’una delle tribute band di Elvis che infestano il mondo. Insomma, un pappagallo molto ben ammaestrato che, si sussurra, possa persino vincere l’Oscar per il miglior attore protagonista, ma che rimane, in fin dei conti, sempre un grosso pennuto variopinto.

   

Puramente ipotetica è la stretta vicinanza con musicisti afroamericani come B. B. King, Big Mama Thornton, Sister Rosetta Tharpe

 
Luhrmann, invece, ha messo del suo, allontanandosi dai meticolosi studi biografici e dalle accurate testimonianze video, quando ha dato al film quell’aura “Black Lives Matter”, quel politically correct,  che oggi  va così tanto di moda.  Le scene di frequentazione dei rent parties (le festicciole in casa degli afro-americani, organizzate per recuperare fondi e pagare gli affitti) di Beale Street a Memphis sono di pura invenzione, così come sono puramente ipotetici i rapporti di stretta vicinanza con B. B. King, Big Mama Thornton, Sister Rosetta Tharpe e chi più ne ha più ne metta. Invece, per quanto riguarda le relazioni coi neri, sappiamo che, per quanto Elvis abbia sempre ammesso la diretta discendenza della sua musica dalle hit blues e rhythm and blues che le radio del sud degli Stati Uniti trasmettevano, al musicista così tanto immortalato da Baz Luhrmann, Arthur “Big Boy” Crudup – autore della canzone-scintilla della sua carriera “That’s All Right Mama” e di “My Baby Left Me” – non venne mai pagato il becco d’un dollaro in diritti d’autore, nonostante, alla fine del film, il politically correct induca persino a una sovrapposizione spirituale tra Crudup ed Elvis.

  

 

S’è invece taciuto, sempre per correttezza politica, del famoso incontro alla Casa Bianca tra Richard Nixon e Presley, allarmato dalla decadenza dei costumi in America, preferendo la profonda costernazione del Re del Rock’n’Roll per le morti di Martin Luther King e di Bob Kennedy che, guardacaso, se non fosse stato ucciso, sarebbe stato l’avversario di Nixon alle presidenziali del 1968. Proprio questa è la sensazione più stucchevole e fastidiosa del film: il tentativo di rendere Elvis Presley, oltre che un paladino dei diritti civili, persino un santo moderno. Quasi da canonizzare. E’ il principale sapore che rimane dopo due ore e trentanove minuti di prodigiosi effetti speciali, di America a buon mercato, di encomiabili, questo sì, tentativi di affiancare il rock’n’roll a sonorità modernissime, di lacrime reali quando, alla fine del film, Luhrmann mixa Austin Butler col vero Presley mentre canta “Unchained Melody” a Rapid City, il 21 giugno 1977, a meno da due mesi dalla morte. Tuttavia, per farmi piangere, non occorreva tutto il film, bastava rivedere il video del concerto di Elvis su YouTube.

 
Eppure era sufficiente ascoltare quella vocina nasale, dall’accento bostoniano, che diceva: “Beh, c’ho messo dieci anni a scrivere la biografia di Presley e tu vorresti fare un film sulla sua vita? Quanto vuoi far durare il film? Dodici ore?”. Perché tutti i fan di Elvis lo sanno: la Sua è stata una grande avventura, ma soprattutto due sono stati i momenti salienti. Quando dal nulla, grazie alla scintilla del primo singolo “That’s All Right Mama/Blue Moon of Kentucky” imboccò l’autostrada che lo ficcò rapidissimamente proprio al centro del Sogno americano e quando il Sogno americano finì per strangolarlo nel lusso sfrenato del Las Vegas Hilton Hotel e sulla moquette esotica di Graceland. 

 
Eppure, all’inizio di “Careless Love. The Unmaking of Elvis Presley”, prima che Peter Guralnick inizi a posare le sue parole nella “Nota dell’Autore”, c’è una citazione di James Baldwin, intervistato da Quincy Troupe.

 
“E’ duro essere una leggenda. Faccio fatica a riconoscermi. Ci vuole un sacco di tempo per cercare di evitarlo. Il mondo intero ti tratta in modo insopportabile, perché col passare del tempo tu non sei davvero la tua leggenda, ma ne sei imprigionato dentro. Nessuno ti lascia scappare, tranne chi sa quel che si prova. Ma pochissimi lo hanno provato o ne sanno qualcosa, e credo che si possa rischiare di impazzire. Io lo so che il rischio c’è e che ti può succedere davvero”.

  
A Baz Luhrmann, che pure ha studiato a lungo i libri di Guralnick, queste parole devono essere sfuggite, d’altro canto è comprensibile: si trovano solo all’inizio della “Nota dell’Autore”. Molto probabilmente se le avesse lette ci avrebbe risparmiato due ore e trentanove minuti di prodigiosi effetti speciali, una sorta di grande videogioco, che con Elvis c’entrano poco. O forse persino niente.

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