il foglio del weekend
I Måneskin e il rock'n roll dei mansueti
Sono il tipo di star che piacciono ai genitori, altro che cattivi maestri della trap. A Roma uno spettacolo di lessico famigliare
Il rock’n’roll non morirà mai, dice Damiano David. Ma il rock’n’roll è già morto. E proprio lui – o comunque anche lui – si dà un gran da fare per seppellirlo. Sabato scorso i Måneskin accendevano il Circo Massimo. In tutto settantamila ingressi con un’imprecisata percentuale di “mamme per amiche”, vip e politici. E in generale, scriveva il Corriere, “tantissime famiglie. Non solo figli adolescenti, e non soltanto di Roma, ma anche più piccoli, vestiti da mini-rock star, con le t-shirt e le bandane del gruppo”. I quattro erano invece gonfi di rimmel e rouches neoromantiche. Con le vesti trapuntate di fiori e lustrini Gucci.
“Al mio tre scatenate l’inferno”, urlava Damiano nerovestito. Un invito rivolto al pubblico, che di quello stesso pubblico diceva tantissimo, tra significanti e significati. Un comando. E ancor più un indizio di lessico famigliare. La citazione, ricorderete, è di Massimo Decimo Meridio alias Russell Crowe. Il gladiatore di Ridley Scott che tutti conoscono e tutti amano. Tutti conoscono e tutti amano significa che quel film resta una pellicola da sofà. Uno di quelli che l’uomo comune guarda almeno una volta nella vita. Eventualmente cinto da prole. E pare che – fra i vippissimi hollywoodiani sotto il palco – ci fosse proprio Russell Crowe a benedire il pupillo del popolo. Campione di ludi circensi che come lui, dopo di lui, tiene insieme seconde e terze generazioni. Cascando a fagiolo nel Circo Massimo.
Non solo Angelina Jolie. “Al mio tre scatenate l’inferno”, urla Damiano, citando “Il gladiatore” con Russell Crowe, che pare fosse sotto il palco
Il punto è questo. Al concerto dei Måneskin, sabato scorso, c’erano dive e gladiatori. Angelina Jolie in testa. E poi Gabriele Muccino, Valerio Lundini, Anna Foglietta, Anna Ferzetti, Riccardo Scamarcio, Edoardo Leo. E ancora diverse fate madrine. Più che un concerto – a giudicare dalle foto circolate su Whatsapp – sembrava un rito con quaranta-cinquantenni avvinte a poco più che decenni. Ragazzine da cresimare in spirito rockettaro. Coppie di anime complici. Le “mamme per amiche” valicavano le transenne, facendosi forza sotto il solleone romano. E fra le tante coppie ovviamente virali sono state Angelina e Shiloh Jolie-Pitt. Mamma e figlia canticchiavano “I wanna be your slave”. Battevano mani, innamorate degli ambasciatori italiani nel mondo. Perché i Måneskin, oggi, si ascoltano ovunque. Come ovunque si mangiano pizze ai peperoni e spaghetti al sugo. E in qualità di nuovi mandolini, quasi quasi hanno più successo di là che di qua. Sono ormai enti di rappresentanza nonché orgoglio nazionale.
Una scalata vertiginosa, la loro. Dal trionfo di Sanremo 2021 a quello dell’Eurovision Song Contest lo stesso anno. Di lì a pochi mesi l’Italia avrebbe vinto persino gli Europei di calcio contro l’Inghilterra. E in quel tripudio post-pandemico, si colmava un vuoto nella canzone oltre che nel pallone. Sentinelle della tifoseria tricolore, i quattro sono diventati i circensi di un neopatriottismo per ragazzini e ragazzoni. Giovani, acuti. E per ciò stesso inutilmente esagitati. I Måneskin hanno azzeccato una formula riempi-stadi scampata al Covid. “Secondo me fanno effetto sulle famiglie perché ai genitori ricordano molto il rock degli anni Settanta, mentre ai figli piacciono perché per la prima volta ascoltano del rock contemporaneo”. Queste le parole di Beatrice, neomaturata al liceo scientifico di Lecce.
Ed è proprio questo il vuoto che il gruppo ha colmato, sbrecciando un muro generazionale. Il meccanismo è lo stesso di Russell Crowe ne Il Gladiatore che – in barba al bollino arancione della prima serata – raccoglieva tribù domestiche sotto al televisore. Tutto questo ante Netflix. Così i Måneskin, a dispetto del bollino rosso e dell’aria intrippata, sono un musico collante per consanguinei. Genitori e figli sono pronti, al suo tre, a scatenare l’inferno. E capirai. Per l’occasione è partito l’hashtag #tuttiresponsabili. Finita la festa, sabato scorso, bisognava consegnare ai custodi dell’oltretomba ecologista – gli operatori Ama – le bottigliette di plastica. “Per contribuire alla raccolta differenziata”. E allora desumiamo che coi cerberi verdi al concerto saranno girate al massimo i-qos e birre. Sai che inferno. Ma pure questa è una carta vincente. Non solo presso gli eco-ansiosi ma anche e soprattutto – un po’ per contrappasso – per chi della plastica se ne infischia. Se siete orgogliosamente boomer, se non avete smanie giovaniliste e addirittura considerate il make-up dei quattro uno smalto sul nulla, e se poi i vostri figli vi chiedono un biglietto per andare a sentire i Måneskin, tendenzialmente quel biglietto voi lo comprate. Sapete infatti che l’adolescenza è una malattia che passa presto. Siete genitori stagionati e nulla augurate ai figli che non sia d’invecchiare in fretta. Ecco, se così siete fatti, poco v’importa del vuoto cosmico della Generazione Måneskin. E’ già tanto che al concerto non alligni la cronaca nera. In fondo lo sapete anche voi: è un satanismo gattomortesco quello di Damiano e gli altri. Nessuno può farsi male se varca le transenne con l’intento di raccogliere plastica mentre canta. I vostri figli sono al riparo, protetti da poeticismi e vaghi cenni sull’universo. Niente siringhe e niente stupri. Nessuna allusione allucinogena nelle sortite dei quattro. Neppure quando li sentite cantare: “Siamo fuori di testa / ma diversi da loro”.
Se siete orgogliosamente boomer, quel biglietto ai figli lo comprate. Non v’importa del vuoto cosmico della generazione Måneskin
E d’accordo, sono fuori di testa. Ma la domanda è: diversi da chi? Prima di rispondere e infilarsi nel fitto bosco delle somiglianze, se ne focalizzi una in particolare. Il quartetto capitolino di norma veste pastiche, con giacche che somigliano addirittura a quelle dei primi Beatles. E dunque restiamo sul quartetto di Liverpool e prendiamo un passo del critico musicale Piero Scaruffi, secondo il quale i britannici furono “il salvagente per la middle-class bianca, terrorizzata all’idea che il rock and roll rappresentasse una vera rivoluzione di costume. I Beatles […] conquistarono i cuori di tutti coloro che (soprattutto al femminile) volevano essere ribelli ma senza violare i codici imperanti”. Fuochino-fuocherello. I Måneskin non sono i Beatles, ma questa frase un po’ ci azzecca. Perché, mutatis mutandis, un anti-ribellismo che decanti gli spiriti puberali serve sempre. Quello era il tempo di Bob Dylan e degli hippy, dei giovani arrabbiati col pugno chiuso. John, Paul, George e Ringo rappresentarono un dolce e stralunato antidoto alla rabbia. Oggi, con Damiano, ci sono Victoria De Angelis, Ethan Torchio e Thomas Raggi. Battezzati nel nome di “X Factor” – correva l’anno 2017 – sono il ritratto dell’adolescentismo aggrega-famiglie. Un’alternativa ai trapper: da Sfera Ebbasta (che pure ha fatto un figlio, ha messo la testa a posto) a tutti gli impiastri nascenti. Nessun genitore – boomer o giovanilista che sia – amerebbe vedere il suo ragazzo sotto la gonna di Simba La Rue, per esempio, il trapper accoltellato un mese fa a Treviolo, in provincia di Bergamo. Certo anche il Gangsta rap, negli Ottanta, esisteva già sulla West Coast. Sesso, droga e lame arrivano nei suburbi lombardi con una certa lentezza. Ma, ritardo per ritardo, mamma e papà scelgono i Måneskin. Comprensibilmente. Scelgono quelli che, sulla bocca di tutti, democratizzano la figaggine. I quattro gattimorti che replicano le colonne sonore di quando i genitori nascevano e insegnano ai figli come stare al mondo. Maestri di un anticonformismo che non sporchi mai le mani.
“I Måneskin sono terribili”, dichiarava alla vigilia del concerto Steven Wilson, leader dei Porcupine Tree. “Certo è fantastico per l’Italia ed è sempre positivo quando una band fa conoscere ai ragazzi chitarre e batterie, vorrei solo che fossero un po’ meglio”. Ma meglio di chi? E qui torniamo alla domanda delle domande: diversi da chi? Wilson risponde: “Per chi è cresciuto sentendo i Led Zeppelin, i Pink Floyd o i Black Sabbath […] è dura perché sono una copia scadente di quel che erano gli altri”. Sullo scadente soprassediamo, ma sulla copia della copia basta accostarli a qualche fotografia. Non solo Led Zeppelin. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, li ha sapientemente infilati in zampe di elefante super glam. Nel senso del glam rock. E ancora le cravatte regimental che indossano i ventenni in situazioni più informali, magari interviste radiofoniche, riportano ad Angus Young degli AC/DC. Un bel fritto misto di chi sa cosa pescare, dunque, e sa riaccendere uno dei sentimenti più italiani di sempre: la nostalgia. Quella nostalgia canaglia per un perduto inferno, in una ricerca che non si sa ancora se sia un fuoco di paglia… Ma tant’è.
Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, li ha infilati in zampe di elefante super glam. Il fritto misto di chi sa accendere la nostalgia
In sostanza, se gli italiani o sono furbi o sono fessi, i Super Måneskin sono furbissimi. Per capirlo si prenda un’altra vaga ascendenza di casa nostra. C’era una volta Marco Castoldi in arte Morgan. Frontman dei Bluvertigo. Come Damiano, anche lui passava da “X Factor” (ma in veste di giudice). E anche lui era un passatista convinto. Damiano e Morgan, dunque. Ecco che da una parte abbiamo il furbo compagno di Giorgia Soleri e dall’altra un poco strategico intellettuale, tenero e provinciale. Fesso magari no ma innamorato sì. E per giunta di Asia Argento. Da un lato il lucido imitatore che s’inventa il concetto di boy-band con patina retrò. Dall’altra il citazionista annebbiato dai vapori dell’arte, lo scapigliato. In questa parentela d’intenti e di occasioni, il canone furbi-fessi di Giuseppe Prezzolini rivela chi avanza, come e perché. Morgan puntava a un’emozione intellettuale; Damiano coglie un’emozione popolare. E in Italia più dell’intelletto bisogna catturare il cuore. Il citazionismo va bene fintantoché la citazione è implicita. Perché è il sentimento popolare che bisogna titillare. Giammai il risentimento (ossia il rancore di chi la citazione non coglie). E poi, estendendo il prezzoliniano canone alle consorti, Giorgia Soleri – Yoko Ono o quinto membro dei Måneskin – è una gattina svenevole in confronto ad Asia. Insomma, nemmeno lei è fessa. E nelle sue poesiole (ha scritto un libro di poesie, sì) come nei suoi peli ostentati c’è comunque del metodo. Giorgia sa bene che il villo ascellare può diventare virale, contagiare le ragazzette sui social senza per ciò scatenare un contagio ingestibile come a suo tempo fu il caso Weinstein. Da buona vestale, Giorgia conosce il senso del limite. Parla sempre di cicli lunari, è vero, ma sa come porsi e dove fermarsi. E dà un contributo non banale all’allevamento della Generazione Måneskin. Tanto che il fidanzato la segue persino alla Camera dei deputati, dove due mesi fa era attesa per sostenere una proposta di legge che riconoscesse vulvodinia e neuropatia del pudendo. Il rock non finirà mai, diceva Damiano. Ma a sentire Giorgia this is the end. Perché se sul finire dei Sessanta quelli di Jim Morrison a Miami si chiamavano atti osceni in luogo pubblico, cinquant’anni dopo quelli di Damiano a Montecitorio si chiamano diritti mestruali…
Il rock ricuce famiglie che non vogliono sapere chi sia Kodak Black, il trapper che dice: “Avevo due opzioni: vendere droghe con una pistola o fare rap”
E un’ulteriore conferma del decesso del rock arriva allorché la politica più figa al mondo è fotografata al festival Ruisrock nella città di Turku. E’ lo stesso giorno del concerto al Circo Massimo. Parliamo di Sanna Marin ovvero lo spirito del tempo a cavallo di shorts. E’ la premier finlandese con chiodo nero e tutta una famiglia arcobaleno alle spalle. Idolo millennial la cui istantanea, trottando sui social, ha fatto il giro del mondo. Ebbene, da Torku a Roma il rock è decretato bacinella del buon costume, perché in musica il plauso politico è vago parente dello stupro di Euterpe. Ma il rock’n’roll, oggi, è soprattutto un punto di raccolta per chi, per esempio, non vuol sapere chi sia Kodak Black, il trapper nato in Florida che candidamente dice: “Avevo due opzioni: vendere droghe con una pistola sul fianco o fare rap”. A differenza della trap, il rock non accoltella. Per fortuna. Piuttosto ricuce famiglie. E i Måneskin sono testimoni e fautori di questa tessitura. Rimescolano giovani e vecchi in un coacervo di perenni vitelloni.
Dagli atti osceni ai diritti mestruali, i Måneskin fissano nel rock un retour à l’ordre. Un riavvolgimento del nastro che porta in scena facce feroci e dionisismo taroccato. Sintesi perfetta di cronaca rosa e unghie nere. Uno smalto sul nulla, appunto.