Uno scatto di Nick Cave durante il concerto all'Arena di Verona (Foto di Vittorio Bongiorno)

musica

Nick Cave e il suo regno

Vittorio Bongiorno

Dopo una vita di tragedie l'erede del rock 'n' roll di Elvis Presley sorride e fa pace con il pubblico. Il concerto all'Arena di Verona

Nick compare sul palco con un’ora e dieci di ritardo per il maltempo che si è abbattuto sull’Arena di Verona. Ha il tipico passo felpato da gatto dalle sette vite, vestito Gucci dalla testa ai piedi, quieto e di buonumore. Sembrano passati mille anni da quando la sua entrata in scena incuteva un timore reverenziale, un attimo prima della tempesta: i concerti finivano spesso a botte, era lui che cercava lo scontro con il pubblico, e spesso le prendeva. Con il tempo però l’australiano sembra si sia pacificato, e il pubblico è diventato il suo miglior amico. Lo cerca, lo elettrizza, si fa accarezzare il manto nero e luminoso, per poi scappare via fulmineo. E’ l’ultima vera rockstar che ha saputo reinventarsi per sopravvivere allo showbiz, rimanendo fedele ai fan degli esordi ma conquistando il cuore degli ascoltatori mainstream con canti di dolore, peccato e redenzione, però come se fischiettasse canzonette sotto la doccia.

 

Stasera sorride all’Arena quasi completa, si guarda intorno. E’ in piedi, sul precipizio, sotto di sé il golfo mistico ma senza l’orchestra, e anche senza gente, per motivi di sicurezza distribuita solo sulle gradinate. Allarga le braccia, sembra dispiaciuto, c’è un’atmosfera sospesa, poi parte una rullata di batteria e lui scalcia in aria come un adolescente sull’urlo liberatorio di “Get Ready For Love”. Il pubblico è già in delirio, lui continua a scalciare a destra e a sinistra, il bassista Martyn P. Casey, anch’egli australiano e con lui da una vita, tornisce un giro di basso per cui è difficile stare fermi. La macchina ritmica chiamata Bad Seeds, la band che lo accompagna da sempre, guidata dal fido violinista barbuto Warren Ellis, fa salire di giri la potenza della musica. Oltre al violino Ellis imbraccia una piccola chitarra tenore a quattro corde che produce una quantità di suono impressionate. Nick si agita avanti e indietro, sembra un po’ impacciato, come un animale in gabbia: gli manca la gente, il contatto, cerca i suoi musicisti, sta per scivolare sul bagnato e prende una botta alla gamba contro un gradino del palco, ma continua a cantare. Torna sui suoi passi. Saluta quelli sulle gradinate e, nonostante il rischio di scivolare, decide di arrampicarsi verso di loro. Un tizio della security sta per intervenire ma lui lo inchioda con un gesto secco. Saluta la gradinata e poi decide, scende la scaletta fino alla gente che ormai è tutta in piedi per lui, nella pancia dell’Arena. Un fan gli corre incontro eccitato ma lui lo ferma senza nemmeno toccarlo. “Voglio raccontarvi di una ragazza”, intona con fare teatrale, e immediatamente i Bad Seeds pestano su tamburi e chitarre e producono una scossa elettrica ossessiva che mescola il blues del Delta del Mississippi al punk sferragliante della Berlino pre-riunificazione. 

 

Il pubblico è solo sulle gradinate per motivi di sicurezza. Lui si agita, cerca il contatto e, nonostante il rischio di scivolare, decide di arrampicarsi

 

“From Her to Eternity” è un brano del 1984, un piccolo gioiello incastonato nel suo primo album. Dice che all’inizio degli anni 80 era sbarcato in Europa con i compagni di avventura e non si poteva permettere di vivere a Londra, la Mecca della musica. Aveva così dirottato sulla più abbordabile ma altrettanto inquieta Berlino Ovest. Cominciò ad aggirarsi tra le macerie di quella città fantasma alternando Bertolt Brecht all’Antico Testamento, i romanzi southern ghotic di Faulkner ai canti strazianti del bluesman cieco Blind Willie Johnson. Perennemente alla ricerca di eroina, come raccontano le biografie dell’epoca. Anni maledetti, quelli, e folli d’amore per la sua musa Anita Lane, la chanteuse australiana prematuramente scomparsa nel 2021, autrice di molti testi delle sue canzoni. Erano anche gli anni del suo sodalizio con il genio della musica berlinese Blixa Bargeld, leader degli Einstürzende Neubauten, che insieme a Nick e compagni compare in una scena de “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, guarda caso suonando proprio “Da Lei all’Eternità”.

 

A vederlo oggi, dopo quasi quarant’anni da quell’esordio febbricitante, fa impressione: si aggira tra i corridoi della platea dell’Arena come uno spiritello indemoniato, si contorce, urla al microfono, e tiene a bada centinaia di fan che gli corrono incontro con la sola forza del suo sguardo. “From Heeer to Eteeernity”. Il pubblico in coro partecipa. Poi torna alla scaletta e risale, per quelli che lo osservano da lassù, e subito dopo riscende leggiadro verso il palco, come solo i felini sanno fare. Intanto i Semi Cattivi insistono sempre sullo stesso accordo mentre lui si affaccia nuovamente sulla “buca”. Si inginocchia, col suo bell’abito luccicante che lo stilista Alessandro Michele deve avergli cucito addosso, si dimena, scalcia, va al pianoforte a coda e lo percuote, poi alza le braccia al cielo, la chitarra elettrica di George Vjestica stride, il violino di Warren Ellis agitato in aria come se fosse una clava… Poi, dopo il ritornello con diecimila coristi, la musica magicamente si arrende, e lui ringrazia e ridacchia: anche questa sera il rito pagano del rock and roll è andato in scena al massimo del suo splendore. “E’ un cazzo di buco”, dice lui ridacchiando e guardando di nuovo di sotto, e c’è da aspettarsi di tutto da questo uomo. Potrebbe saltare giù all’improvviso, o uscire di scena, e sarebbe comunque bellissimo lo stesso. E in quel buco, dice ridacchiando, ci stanno gli spiriti, i tanti fantasmi che ognuno si porta dietro stasera, a cui dedica la canzone “Carnage” dall’ultimo disco del 2021.

 

Alla fine degli anni Ottanta si parlava di Nick Cave sottovoce, la sua musica faceva paura, come se fossimo a rischio di un contagio al solo ascoltarlo

 

Alla fine degli anni 80 ero ancora un ragazzino con i capelli a carciofo quando lo sentii per la prima volta in un’audiocassetta duplicata mille volte. Si parlava di Nick sottovoce, la sua musica faceva paura, come se fossimo a rischio di un contagio al solo ascoltarlo. Una specie di maledizione. Dice che proprio in quel periodo, tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, Nicholas Edward Cave, nato nel 1957 in una cittadina vicino a Melbourne, frequentava la Vucciria, il quartiere popolare nel cuore di Palermo. Dice che addirittura improvvisava esibizioni nei pub e nelle taverne quando veniva a trovare la dolce Anita, cantante dalla voce d’angelo e dalla pelle di porcellana. Come ogni leggenda urbana che si rispetti nessuno dei miei amici l’aveva visto direttamente, ma conosceva qualcuno che conosceva qualcun altro che l’aveva visto. In quel groviglio infernale di case semidistrutte, vicoli bui, merci abbanniate, vendute gridando tra i banchi del mercato e santi protettori a ogni angolo, nessuno aveva le prove che Nick ci avesse mai messo piede, ma ancora oggi è bello immaginarlo in un quadro di Renato Guttuso o in un film “alla fine del mondo” di Ciprì e Maresco: “Lo zio di Melbourne”. Nicola Caverna, pallido, allampanato, con i capelli esplosi in testa come un “parafulmine in un cielo di guai”, era un personaggio perfetto per la follia di quei luoghi, il fratello maggiore ideale che il popolo di sballati e disadattati seguiva come un profeta punk. Io stesso, qualche anno dopo, gli avevo fatto fare una comparsata nel mio romanzo ambientato proprio a Palermo, “Il bravo figlio”, ispirato al suo disco “The Good Son”. Una volta, dopo un concerto a Milano, gliene avevo regalato una copia, che lui avrà probabilmente buttato.

Oggi Cave ha sessantacinque anni, ha pubblicato una trentina di dischi, composto colonne sonore, ha scritto sceneggiature, romanzi, e ha fatto persino l’attore. Nell’ultimo film, appena uscito, il documentario musicale “This Much I Know to Be True” diretto da Andrew Dominik, racconta la sua curiosa idea di reinventarsi come ceramista, perché essere musicisti non è più redditizio, dice ridacchiando. Poi si fa serio e precisa che ora è più felice di un tempo. “Questo non significa che sono in pace”, si affretta ad aggiungere dopo, “ma la felicità non è la cosa più importante per me. E’ sentire che le cose hanno un senso… Che la natura stessa del mondo abbia un senso. E le persone sono esseri che hanno un senso”.

 

Gli ultimi album “Skeleton Tree” e “Ghosteen” raccontano l’immenso dolore per la morte accidentale del figlio quindicenne Arthur

 

Ad ascoltare le canzoni in scaletta all’Arena ci si fa un’idea di questa curiosa pace interiore, sicuramente sostenuta dalla fede, dopo essersi ripulito dalla droga ed essere diventato padre e musicista “serio”. Ha fatto scalpore, anni fa, la dichiarazione per cui ogni mattina si siede alla scrivania del suo ufficio a scrivere (canzoni, testi, poesie), e nel tempo pure la sua musica è diventata meno minacciosa, ma non per questo banale o sdolcinata. Tutt’altro. Gli ultimi album “Skeleton Tree” (2016) e “Ghosteen” (2019), da cui pesca le canzoni più poetiche proposte a Verona, raccontano in modo straordinariamente complesso ma senza mezzi termini l’immenso dolore per la morte accidentale del figlio quindicenne Arthur, precipitato da una scogliera nel 2015. E probabilmente tutti, qui all’Arena, sanno della tragica morte di un paio di mesi fa anche di un altro figlio, il trentunenne Jethro: il calore del pubblico riservatogli in questa celebrazione solenne è impressionante. Che sia il modo per espiare le sue colpe, o, secondo i più cinici, una esperta messa in scena molto spettacolare, importa davvero poco, e nessuno saprà mai la verità.

E ora Nick, come uno sciamano che sopravvive alle grandi tragedie e parla con il mondo soprannaturale, torna tra la gente e apre il passaggio davanti a sé con una forza che ha dell’eccezionale, a metà tra il mondo degli spiriti, le divinità e le rockstar. Me lo trovo davanti a qualche metro, gli scatto una foto ravvicinata e lui si ripara con la mano libera dal microfono, e gliela sfioro dolcemente per un istante.

 

 

Siamo a metà di “Tupelo”, il brano del 1985 che racconta della terribile tempesta che si abbatte sulla omonima città al momento della nascita di Elvis Presley, il re del rock and roll. I Bad Seeds insistono furiosamente su un solo accordo ripetuto ossessivamente, lui urla il ritornello “o Dio aiuta Tupelo!” mentre i ragazzi e le ragazze lo osservano letteralmente in estasi. Qualcuno cerca di abbracciarlo, lui si fa tenere per un po’, poi scivola via facendosi accarezzare da qualcun altro accanto, sfiorando mani tese, chiamando a sé, urlando con scatti di stizza “Andate a dormire bimbi, l’Uomo Nero è in arrivo”. Canta una storia che mescola religione, mitologia, mistero e inquietudine ancestrale, la gente applaude convinta, anche se magari non tutti capiscono cosa dice. Ma forse è proprio questo il bello. Si arrampica su una poltroncina di ferro e i fan gli si stringono intorno. In molti lo filmano col telefonino, qualcuno ha una macchina fotografica, in tanti ballano al suo ritmo e salutano orgogliosi gli amici rimasti indietro. “Nessun pesce può nuotare, finché non nasce il Re!”, urla lui dimenandosi, “a Tupelooo”. La musica si quieta, rimangono solo i tamburi percossi in modo tribale, e Nick lo sciamano lentamente si sposta inghiottito dalle viscere dell’Arena di Verona senza dover nemmeno camminare, sostenuto dalla processione del suo pubblico.

 

Inscena un incontro con una ragazza issata da chissà chi, urla “o madre culla dolcemente il tuo piccolo”. Le sfiora il volto, lei scoppia a piangere

 

E’ una maschera di sudore, e ricorda proprio The King, Elvis Presley (che viene festeggiato oggi da un brutto film di Baz Luhrmann) durante la famosa esibizione a Rapid City nel 1977, due mesi prima di morire. Anche in quel caso Elvis gronda sudore, sorride, si impappina, canta, gonfio di alcol e droghe, ma lo fa per il suo pubblico. Nick è esattamente il suo unico erede, ma in positivo: suda, canta, ride e sputa, per il suo pubblico. Inscena un incontro con una ragazza riccioluta issata su da chissà chi mentre urla “o madre culla dolcemente il tuo piccolo”. Lei trema dall’emozione, lui le sfiora il volto, lei scoppia a piangere, e lui urla “il Re camminerà su Tupelooo”. Poi la musica si ferma di colpo, i Bad Seeds lo seguono a distanza, e le luci si spengono. “Sono in trappola”, ridacchia lui mentre cerca di tornare sul palco. Ogni tanto si va a sedere al pianoforte, sputa in continuazione, ridacchia, dice che forse stasera si sta ammalando, ma questo tizio di quasi un metro e novanta non è mai stato tanto in forma. 

“C’è un regno dei cieli”, canta in “White Elephant”, l’ultima canzone prima della fine, “stiamo tutti tornando a casa, per un po’”. E’ come un gatto nero, fa un po’ paura ma tutti vorrebbero averlo in grembo. Stasera, o forse per sempre. Lunga vita a Nick.

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