I C'Mon Tigre immortalati da Margherita Caprilli 

Il foglio del weekend

Un viaggio ai confini del mondo con i C'Mon Tigre e Paolo Pellegrin

Vittorio Bongiorno

Musica e immagini insieme in un album dall'estetica unica. Un racconto dell'uomo, dai campi Rom della periferia romana ai campi profughi in Iraq

Lo “scenario” si apre con il suono di un Oud, uno strumento della musica popolare araba, che si adagia su una nota bassa e insistita del Moog Subs 37, un sintetizzatore analogico inventato dall’ingegnere americano Robert Moog (l’uomo a cui tutta la musica elettronica, dagli anni 60 a oggi, deve dire grazie). Cinquantasei secondi sospesi, quasi un lamento di un muezzin cyberpunk, che lascia spazio a un irresistibile graffio elettrico di chitarra che sa di tuareg, battiti di mani e una batteria da club underground londinese, a cui si aggiunge la pulsazione melodica di una Log Drum, una percussione di legno diffusa tra Africa e Oceania. “Scenario”, il terzo album dell’ensemble italiano chiamato C’Mon Tigre, si apre con un turbine di suoni e colori da far girare la testa.

 

Il disco, appena uscito, nonostante sull’identità delle due tigri aleggi un che di mistero, gode della partecipazione di straordinari musicisti italiani (Marco Frattini, Beppe Scardino, Mirko Cisilino e il tentacolare Pasquale Mirra) e personaggi eccellenti della musica internazionale più interessante del momento (su tutti Gianluca Petrella e il suo trombone al fulmicotone, la portoricana-newyorkese Xenia Rubinos dalla voce portentosa, il canadese-americano Colin Stetson e il suo sax alieno). Questo “Scenario” riesce magicamente a far combaciare gli opposti, lo strumento di legno, il campionatore e gli ottoni, plasma insieme le diversità, unisce il personale con l’universale.

 

“Scenario è una parola italiana ma che viene comunemente usata anche all’estero, pur mantenendo una radice, e questo riassume bene la nostra prospettiva”, mi raccontano i due intestatari del progetto in collegamento Zoom. Pochi minuti dopo, in una afosa giornata di piena estate, ci raggiunge virtualmente anche Paolo Pellegrin, il pluripremiato fotografo Magnum che ho inseguito per settimane dal suo ritorno dal fronte della guerra in Ucraina, e che ora risponde dall’altra parte dell’oceano. 


In un momento storico in cui il battito cardiaco della musica non ha mai pulsato così debolmente, reso inconsistente e impalpabile dal nuovo edonismo algoritmico, questi tre folli hanno dato alle stampe un disco in un luminosissimo vinile bianco che racchiude un libro di 64 pagine con foto pescate da trent’anni di viaggi ai confini del mondo, tra guerre, povertà e migrazioni (ma anche qualche sogno e speranza). Prendono subito la parola i due musicisti per raccontare la nascita dell’insolito progetto: “In passato abbiamo composto le musiche e poi cercato un’associazione visiva che rappresentasse al meglio o che amplificasse alcuni aspetti di essa, ma di fatto il nostro stavolta è stato un approccio voyeuristico, ci siamo affidati a un occhio altrui e abbiamo in qualche modo sonorizzato dei paesaggi. Con rispetto, ma li abbiamo tradotti a nostro modo”.

 

“I nostri lavori si sono attratti”, gli fa eco il fotografo, “il mio lavoro ha una natura umanistica, di racconto dell’uomo. E ci sono delle suggestioni che ho trovato nei C’Mon Tigre, pur ovviamente in un ambito diverso, che in qualche modo dialogano naturalmente. Questi due lavori si sono, per così dire, chiamati”. A farli incontrare, in verità, è stato il filmmaker Paolo Freschi, amico comune ai tre, che aveva usato le musiche dei C’Mon Tigre in due video per una mostra di Pellegrin, che non li conosceva e non sapeva nemmeno che fossero italiani. È così che nel 2019 sono nati i video, “Borderlines” e “Migrants”, come l’omonima canzone contenuta in “Scenario”: una delicata nenia, un borbottio di voci e sintetizzatore, e una percussione metallica che sa di barile arrugginito preso a bastonate. Lamento che poi esplode all’improvviso con un ritmo sincopato e un altro graffio di chitarra, il marchio di fabbrica della band, e le vere voci dei migranti raccolti sulle spiagge del Mediterraneo, l’avvicinarsi delle imbarcazioni nell’acqua torbida, catene e corde che tirano, stridono, lacerano l’anima. Chi ha avuto la possibilità di vederli è rimasto ipnotizzato dalla fusione di immagini e musica, da sguardi e suoni, gesti e silenzi, come se fossero nate insieme, dalla stessa mente creativa. 

 

“A un certo punto rimani fuori da quello che stai componendo cercando di guardarlo da una certa distanza”, racconta il chitarrista del gruppo, “è una sorta di rispetto per il lavoro che fai, rispetto per le influenze alle quali attingiamo, dalle diverse tradizioni musicali che portano con sé cultura, umanità, carità…”. 
Pellegrin sembra d’accordo: “È anche un modo, credo, di invitare il lettore, lo spettatore, a diventarne parte attiva. Io le chiamo fotografie aperte. Cerco sempre, attraverso il non detto, tra il suggerito, di lasciare un’apertura per il lettore, perché poi alla fine queste fotografie si chiudono grazie allo sguardo dell’altro”, tende a precisare il fotografo: “Nella mia fotografia cerco sempre di coinvolgere, cerco sempre una fotografia dove io posso entrare. Fotografia o musica, appunto, esattamente come le suggestioni sonore di C’Mon Tigre”.

 

Quello che il lettore prova nello sfogliare questo libro formato ellepì, e l’ascoltare sente in questa musica per immagini, è una sorta di invito al viaggio, sia degli artisti, ma anche degli spettatori/ascoltatori. È come essere lì con loro, mentre schiacciano i tasti dei sintetizzatori e soffiano nei sassofoni, passando dai campi Rom della periferia romana ai campi profughi in Iraq; si sentono i tamburi rullare e canti lontani indistinguibili mentre si oltrepassano i sobborghi violenti dell’America di provincia e si arriva al paesaggio innevato del Kosovo; ci si lascia trascinare da un ritmo techno che si sovrappone alle grida di rabbia di Gerusalemme in fiamme; ancora, i riff di chitarra che si avvitano sulle melodie evanescenti del vibrafono, che a sua volta si appoggia alla batteria elettronica, come colonna sonora della repressione della Primavera araba. Su tutto, in tutte le foto, e pure nella musica, c’è una profonda umanità. C’è l’uomo, al centro di tutto.

 

“Il più delle volte le immagini di Pellegrin sono fuligginose, sgranate, più vicine a schizzi a carboncino che a nitidi documenti fotografici”, scrive Kathy Ryan, mitica foto-editor del New York Times Magazine nell’introduzione del bellissimo libro della serie FotoNote (Contrasto, 2010). Esattamente come la musica di questi due straordinari artigiani sonori che hanno scelto, nell’anonimato, di far parlare i suoni, i graffi, i colori del mondo. Il tentativo di arrivare all’essenza delle cose, all’immediatezza, una sorta di spontaneità. Un approccio diretto all’essenziale. 
“Io per decenni ho lavorato su una fotografia che potrei definire additiva”, mi incalza Pellegrin, “noi fotografi abbiamo a disposizione questo piccolo rettangolo per testimoniare il mondo, e cercavo di mettere più mondo, più informazioni possibili all’interno di esso. Seguivo i miei punti di riferimento, i miei maestri, Josef Koudelka, Gilles Peress, Eugene Richards. Ma ogni volta che facciamo clic in realtà diamo voce a un pensiero, alla somma di chi siamo in quel momento. Il vissuto, la memoria, gli incontri, i libri”.

 

A stare a sentire il fotografo si viene trascinati in un non luogo, la sua voce, nonostante arrivi da migliaia di chilometri di distanza, ammalia. Viene voglia di guardare il mondo con i suoi occhi. “Ma le fotografie cambiano come noi cambiamo”, aggiunge Pellegrin, che dopo una lunga pausa riprende il filo del discorso, “a un certo punto mi sono trovato a fare una sorta di processo inverso, quindi a sottrarre, a togliere, immaginandomi la fotografia come una scultura. Sai che dentro quel blocco di marmo c’è il tuo David e devi sottrarre materia. È un processo in atto, e chissà poi dove mi porterà, per arrivare a una essenza forse. Come il gesto di un calligrafo giapponese, o a un taglio di Fontana”. 
Un gesto, quindi, o una nota, che dicendo poco, dice tutto. Non sai mai quando finisce di parlare, Pellegrin, perché spara parole a ripetizione e poi sospira, lasciando l’ascoltatore spiazzato. “Scolpire lateralmente…”, aggiunge laconico il tastierista e cantante della band, “si toglie solo per aggiungere ciò che è necessario. Noi, a differenza di Paolo, abbiamo la fortuna di poterci confrontare con i musicisti con cui creiamo un brano, che magari danno il loro apporto completamente inaspettato che ti suggerisce che devi togliere ancora per valorizzare quello che di nuovo ha aggiunto lui”.

 

Le analogie fra i tre artisti sono tante, ma i percorsi che hanno fatto, anche anagraficamente, sono diversissimi: i C’Mon Tigre nascono nella provincia lontana dal business discografico ma hanno le orecchie tese sui suoni del mondo, dai suk nordafricani alle discoteche berlinesi. Nel 2014 esordiscono con il primo disco, un miscuglio di funk, afro-jazz e psichedelia mai sentito prima in Italia che li fa arrivare a suonare a festival prestigiosi come il Roskilde di Copenaghen, il Fiesta Des Suds di Marsiglia, o il Fusion Festival di Lärz in Germania. Pellegrin, invece, di una decina di anni più vecchio, viene da una colta famiglia romana di architetti, ma capisce presto che l’architettura non fa per lui, nonostante il padre gli trasmetta da subito una visione estetica del mondo e della vita molto forte.

 

Si iscrive in una scuola di fotografia quasi per caso ma nel giro di pochi mesi capisce che quella è la sua strada: un lento apprendistato e lo sguardo sugli ultimi, sul popolo dimenticato, sui Rom, sulle famiglie dei circensi lo porta ad arrivare fino a Parigi nel 1991, a ventisette anni, dove viene accettato dalla prestigiosa Agence Vu. E da lì cominciano i viaggi ai confini del mondo, dove spesso i confini sono cicatrici nei corpi degli uomini, delle donne, dei bambini che lui fotografa cercando di andare oltre a ciò che si vede nel rettangolo della macchina fotografica. Dunque Uganda, Bosnia, Gaza, Cambogia, Haiti, Kosovo, e dieci volte il World Press Photo Awards, il più importante riconoscimento mondiale. 

 

È buffo pensare che, con la scusa di parlare di un disco, per di più in vinile – un formato in via di estinzione che però sembra vivere una seconda vita – e di una band di sconosciuti, si arrivi a toccare una profondità di sguardo, di sentimenti, di cuore. I due misteriosi musicisti lo scrivono in apertura del libro con le foto di Pellegrin: “Scenario vuole raccontare ciò che ci definisce come esseri umani: gioia, connessione, rabbia, senso di appartenenza, dolore, angoscia, violenza, dignità. Le tracce di questo album sono uno scorcio di realtà, tutt’altro che fantasioso: sono storie di qualcuno che osserva con le orecchie tese”. 
Prima di lasciarci chiedo ancora al fotografo come si faccia ad accostarsi alle persone che fotografa, spesso in zone di guerra, e ottenere la loro fiducia: “Nella fotografia c’è un po’ questo mito dell’invisibilità, ma si diventa invisibili attraverso la presenza. Quindi con silenzio, con attenzione… quello che io sento è il mio essere, il mio starci. Ritornando anche dopo molti anni in un luogo, sul conflitto israelo-palestinese per esempio, rivedendo le stesse persone per anni. Quindi più ci sei, più ci stai, più scompari. Insomma, il soggetto sei tu”, conclude secco, “nell’altro ci siamo noi, e viceversa”.

 

E di invisibilità ne sanno qualcosa anche i due C’Mon Tigre, che se la ridono sotto i baffi: nel non avere un nome, un volto, un’etichetta riconoscibile, hanno creato qualcosa di incredibilmente potente in cui tutti, indistintamente, ci possiamo riconoscere. E gioire.

Di più su questi argomenti: