Robert Fitzgerald Diggs, alias RZA, e Clifford Smith, alias Method Man, del Wu-Tang Clan al Coachella 2013 (John Shearer/AP) 

Lampi di hip hop. Un genere alla deriva? Per niente

Marco Ballestracci

I grandi di oggi proseguono un’avventura nata nel Bronx 50 anni fa. Kendrick Lamar e gli altri

Non c’è che dire: basta prestare un po’ d’attenzione e ogni giorno il mondo della musica riserva delle sorprese. Per esempio è del tutto inatteso apprendere che l’hip hop ha praticamente la medesima età del punk rock. La precisa data di fondazione della Universal Zulu Nation (probabilmente il movimento più importante nello sviluppo della cultura hip hop, che include, ed è la ragione per cui ne stiamo scrivendo, il rap) è abbastanza incerta, ma comunque si colloca nella seconda metà degli anni Settanta. Così per molti diventa un poco imbarazzante riconoscere che la musica che imperversa dentro ai telefoni cellulari dei ragazzini di oggi è nata negli stessi anni di “God Save the Queen” o “Anarchy in the Uk” dei Sex Pistols. Sarebbe bello rivelarlo a quelli che scuotono la testa ascoltando il flow verbale del rap, considerandolo una nuova escrescenza di questi tempi vuoti, legati inestricabilmente al valore dell’immagine piuttosto che a quello del talento. Non è affatto così.

 

L’hip hop e il rap affondano le radici nei sobborghi più profondi di New York nel periodo in cui, giusto per rimanere all’interno dei confini della stessa città, Springsteen incideva “Born To Run” e “Darkness on the Edge of Town”. La ragione per cui non se ne ha la piena consapevolezza è piuttosto evidente: ciò che riguarda e circonda la Universal Zulu Nation ha impiegato parecchio tempo per uscire dai ghetti del South Bronx e ancor di più per attraversare l’oceano e giungere in Europa. Tuttavia quando nella prima metà degli anni Ottanta l’hip hop è sbarcato nel Vecchio continente l’ondata europea del punk era già terminata: i mai troppo santificati Clash, più dei Sex Pistols la band simbolo del punk, avevano già inciso “Sandinista” e calato definitivamente il sipario sull’appuntita tendenza del movimento. Alla fine il fuoco iconoclasta del punk era durato più o meno cinque anni e il tanto pittoresco popolo delle creste e degli spilloni s’era improvvisamente trovato fuori gioco e fuori tempo a causa della scelta di Joe Strummer e di Mick Jones, i due leader dei Clash, di orientare la propria musica verso i Caraibi, guardacaso proprio uno dei naturali riferimenti etno-musicali della Universal Zulu Nation. La ragione per cui uno stile musicale s’è esaurito, mentre l’altro ha continuato inesorabilmente a incedere è a tutti gli effetti culturale.

       
Lance Taylor, molto più conosciuto con lo pseudonimo di Afrika Bambaataa, racconta così l’inizio dell’hip hop: “Nei primi anni Settanta nel South Bronx si campava tra due dimensioni ben precise. Da una parte si conviveva con la violenza delle gang: con gli scontri quotidiani e lo spaccio della droga, dall’altra con una sempre maggiore presa di coscienza dell’evoluzione del movimento dei diritti civili. Era una situazione di stallo estenuante che non portava da nessuna parte. E’ stato allora che abbiamo deciso d’unire tutti i fermenti che erano nati da quel guazzabuglio: i ragazzi che creavano i beat, i deejay e tutti quelli che si esprimevano col flusso di parole sopra alla musica, coloro che poi sarebbero stati chiamati rapper. Era un movimento che si estendeva dovunque. Partiva dai block party nei nostri quartieri (ossia dalle feste improvvisate organizzate attorno ai blocchi di palazzi), s’allungava in tutta New York e poi si diffondeva per l’America intera e il mezzo attraverso cui avveniva la diffusione erano le musicassette su cui, in casa o in qualche magazzino, registravamo i nostri pezzi. Poi c’erano i ragazzi che ballavano su quella musica, che poi sarebbero stati chiamati break dancers, e chi faceva i graffiti. Tutte queste cose erano l’Universal Zulu Nation. Insomma era l’espressione artistica del movimento per i diritti civili nel South Bronx che si manifestava fornendo ai ragazzi una possibilità di incontro che non fosse esclusivamente con gli spacciatori di crack. Era una possibilità di espressione. Certo, quando abbiamo iniziato non avremmo mai immaginato che ciò che la Zulu Nation cercava di valorizzare sarebbe poi diventato quel fenomeno mondiale che oggi s’identifica col rap”.

    
Alcuni affermano che l’hip hop (o il rap, fate voi) abbia ottenuto un così grande successo perché profondamente identitario nell’alveo della cultura nera. In effetti ha rappresentato una vera e propria rivitalizzazione della musica che negli anni Sessanta aveva principalmente veicolato il messaggio dei diritti civili: il rhythm and blues. D’altro canto uno dei principali divertimenti di chi aveva colto questo codice d’identità era (e in qualche modo continua a essere) scoprire da che brani fossero stati rubati i break su cui fluttuavano le rime dei rapper: allora si scovavano riprese di pezzi di Otis Redding, di James Brown, di Al Green e persino dei frammenti dei Jazz Messengers di Art Blackey. In più la semplicità di “fare musica” grazie alla sequenza dei break campionati, senza la necessità di strumenti musicali, ma solo usando il computer ha aperto un orizzonte vastissimo, verrebbe da dire persino infinito, che oltre a muovere, tra mille difficoltà, i giovani neri lungo la strada d’un possibile consolidamento del proprio talento, ha creato delle situazioni da vera “ironia della sorte”. Per esempio adesso fa abbastanza sorridere ascoltare le cantillazioni del Corano eseguite da chi abbraccia l’ortodossia sunnita perché, per evitare l’uso di strumenti musicali vietato da alcune sure dal significato piuttosto controverso, l’accompagnamento viene affidato a dei break campionati dal computer. Il sorriso sorge spontaneo perché il campionamento è null’altro che l’invenzione dei ragazzi del South Bronx che vivevano aggrappati ai ventricoli del cuore di New York City, che per i fondamentalisti islamici è probabilmente la città più peccaminosa dell’universo.

    
Ma questo accade perché l’hip hop, rispetto ad altri generi musicali, ha un’incredibile duttilità. Riesce ad aggirare la marmorea severità dei salafiti e degli wahhabiti e al contempo è in grado di armonizzarsi facilmente con le altre culture.

    
In questo senso non c’era colonna sonora migliore del collettivo hip hop Wu-Tang Clan (più precisamente del leader RZA) per amalgamare il sovrapporsi delle storie contenute in “Ghost Dog” di Jim Jarmush. in quel film del 1999 s’incrociavano le immagini e le vicende che, oggi come allora, scaturivano dal coacervo dei sobborghi di New York City con le annotazioni d’un monaco buddista del XVII secolo, Yamamoto Tsunetomo, autore del leggendario testo samuraico dell’“Hagakure” (letteralmente “All’ombra delle foglie”).

    
“Avevo sette anni quando ho ascoltato per la prima volta l’hip hop. In realtà sarebbe stato meglio che non mi trovassi sulla strada dove si svolgeva il raduno, ma per tutta una serie di motivi che adesso neppure ricordo mi trovai là. Rimasi subito affascinato da quello che facevano i disc jockey che scratchavano sui vinili – aumentavano o diminuivano la velocità del giradischi – ma soprattutto fui colpito da come i ragazzi usavano il microfono. Utilizzavano poche parole e dicevano cose semplici, ma che rimanevano in testa. E’ stato in quel momento che ho avuto per la prima volta la sensazione di quanto fosse importante un certo uso delle parole e credo derivi da quel block party da bambino il mio desiderio di scrivere testi continuamente. In qualsiasi luogo io mi trovi. E’ la particolare sensibilità dell’hip hop, che è già dalla nascita una musica interrazziale e che si presta a spostarsi verso qualsiasi margine, che m’ha permesso di lavorare in progetti come ‘Ghost Dog – The Way of The Samurai’ e in ‘Kill Bill’ di Quentin Tarantino, in cui non è propriamente semplice comprendere quale sia l’esatto luogo dell’azione e perciò la musica diventa indispensabile perché rappresenta un preciso punto di riferimento”.

  
Certo i tempi underground dei block party sono lontani e “Mr. Morale & The Big Stepper” di Kendrick Lamar è stato uno dei successi commerciali più importanti del 2022. Inoltre il live show ha richiesto un palco di grandissime dimensioni che potesse ospitare delle coreografie che prevedevano oltre venti ballerini. Tuttavia se per un attimo durante il concerto si fossero chiusi gli occhi e si fosse riusciti a non tener conto delle ventimila persone intorno, ci si sarebbe imbarcati in una macchina del tempo, per ritornare agli anni in cui, in qualche playground del South Bronx (anche se Kendrick Lamar è nato e cresciuto a Compton, in California), un deejay riusciva con i suoi due giradischi a suonare tutto ciò che era necessario per accompagnare il flow (cioè il flusso di parole) di un rapper. Perché tolta ogni infrastruttura necessaria all’esagerazione visuale connaturata ai tempi in cui viviamo, l’hip hop continua a essere ciò di cui parlava Africa Bambaataa: parole che arrivano dalle strade dei quartieri disagiati, tenute insieme da un indispensabile minimo musicale, ma con un positivo progetto di evoluzione personale. Perciò è quanto mai errato considerare il movimento rap “una nuova escrescenza di questi tempi vuoti, legati inestricabilmente al valore dell’immagine piuttosto che a quello del talento”.  L’esempio di Compton, una città d’una non indifferente pericolosità, è emblematico. Aja Brown, la sindaca dal 2013 al 2021, ha voluto a tutti i costi onorare il concittadino Kendrick Lamar perché “il suo lavoro d’artista è servito da catalizzatore per ottenere un più elevato livello di coscienza nei giovani della città. Ciò che fa permette a questa generazione di considerare meglio il valore delle istituzioni e, al tempo stesso, di stimolarle. E’ per questa ragione che il consiglio comunale vuole consegnargli le chiavi di Compton, la sua città natale, per il suo lavoro filantropico e per l’impegno verso tutta la comunità”.

 
Certo, i detrattori continueranno a dire che sì, senza dubbio, ci sono dei grandi artisti rap, ma tutte queste continue derive che hanno nomi e protagonisti così buffi – trap o drill che siano – hanno davvero creato un gran guazzabuglio che ormai ha oscurato i lampi dell’hip hop. E’ un tantino sterile replicare a codeste affermazioni, si può solo sussurrare come sia abbastanza stupido minare un intero movimento musicale, per giunta con un’origine così lontana, per alcuni (o persino molti) album poco riusciti. La cosa importante è semmai cercare di incappare in artisti che proseguano la filosofia e il lavoro di Africa Bambaataa e RZA. Per quanto mi riguarda, la colonna sonora di “Ghost Dog – The Way Of The Samurai” ha girato per moltissimo tempo sul mio lettore cd, così come proprio in questi giorni sta vorticosamente imperversando “Mr. Morale & The Big Stepper” di Kendrick Lamar.

 
Perché, per rimanere a metà strada tra Wolgang Goethe e Gep Gambardella, la vita è troppo breve per perdere del tempo a disprezzare della musica mediocre. Molto meglio impiegare il medesimo tempo per godersi quella bella.

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