romantico britpop
Il nuovo disco dei Suede, autori di un seducente patto con il decadentismo
“Autofiction” ha fatto gridare al miracolo l’ormai sonnolenta critica musicale d’oltremanica. “Questo è il nostro disco punk”, ha dichiarato Brett Anderson
Ai tempi d’oro del britpop, affianco ai Blur e agli Oasis, i Suede erano la terza gamba del tavolo. E per quanto le band di Damon Albarn e dei fratelli Gallagher fossero tra loro contrapposte per etica ed estetica, il gruppo guidato da Brett Anderson se ne stava da un’altra parte ancora e seguiva una strada sua, chiamando a raccolta una diversa nicchia di ascoltatori. Le pose efebiche e la vocalità bowiana, romanticissima di Anderson erano la cifra essenziale che non trovava riscontro nella coolness-Blur o nello street style Oasis, e piuttosto ricuciva quel seducente patto col decadentismo che il rock inglese aveva interrotto a metà del decennio precedente. In ogni caso poca sorpresa destò la parabola a prima vista effimera del gruppo, dissoltosi col millennio dopo il fatale abbandono di Bernard Butler, fosco e splendido chitarrista che ne costituiva l’autentica e migliore anima musicale. Al contrario però le cose non sono andate per niente così: quindici anni dopo, nel 2013, i Suede si sono rimessi insieme – sempre in assenza di Butler – ed è stato un sollievo verificare che l’evento non fosse dettato da mediocre opportunismo, ma dallo slancio artistico e intransigente che ha sempre contraddistinto i membri di questo gruppo.
A seguire sono arrivati prima tre album congiunti fra loro da una visibile unità d’intenti, e poi, dopo un ulteriore silenzio di quattro anni, il nuovissimo “Autofiction” che ha fatto gridare al miracolo l’ormai sonnolenta critica musicale d’oltremanica. Un plauso unanime che ha eccitato la nostra curiosità, provocando uno strano caso di spaesamento, non appena cominciato l’ascolto delle tracce dell’album: come si può altrimenti definire la sensazione che il suono della band e la vocalità di Anderson siano rimaste immote nello loro limpidezza, inestricabilmente fissate al tempo del concepimento, quando queste stesse persone avevano, anagraficamente e artisticamente, trent’anni di meno? E, al tempo stesso, che ciò che si ascolta appaia animato da una convinzione e da una nettezza assolute, che attribuisce al disco un fascino difficile da inscatolare in una definizione? E com’è che quella loro rappresentazione glam, l’attitudine anti-macho, quei contenuti che da sempre continuano ad aggirarsi tra le macerie della spiritualità, a fine 2022 posseggano ancora un impatto tanto penetrante, come nel 1990?
“Questo è il nostro disco punk”, ha dichiarato Brett Anderson presentando “Autofiction”, rafforzando il concetto che l’urgenza e la passione che si ascoltano negli undici brani siano il risultato di un riuscito e quasi miracoloso ritorno di fiamma, una prodigiosa proiezione agli inizi, allo spirito originale, a dispetto del cinismo delle carte d’identità (quella di Brett testimonia 54 primavere, raccontate nelle due autobiografie che ha già alle spalle, “Coal Black Mornings” e “Afternoons with the Blinds Drawn”). Comunque il suono è quello, scandito dalla batteria pulsante, espanso dall’instancabile arpeggiare elettrico della chitarra, mandato in orbita da ritornelli potenti e coralità sapienti. “Per molti, molti versi io sono ancora un ragazzo”, canta Anderson in “She Still Leads Me On”, il notevole brano d’apertura dedicato alla madre scomparsa. E per molti versi allora “Autofiction” è un album iper-mainstream, incollato alle prerogative straordinarie che elevarono questa band al di sopra delle dozzine d’altre che con lei approfittarono della bonanza del britpop. Nel suo suono gentile e rabbioso, con una temperatura emotiva che evoca quella dei sonetti dei grandi romantici, i Suede restano credibili a dispetto dello spazio e del tempo, non incorrono in nostalgia, reincarnano lo stesso dinamismo che era stato loro, anche con il contributo della sofisticata opera di produzione dell’antico collaboratore Ed Buller, che li ha convinti a tornare a lavorare nei vecchi studi londinesi Kink’s Konk, dove iniziarono. In sostanza un fenomeno strano, improbabile e inatteso: un ritorno al futuro senza rimpianti, col risultato di collocarsi di slancio in una dimensione classica. E senza perdere il senso dell’umorismo, se è vero che i Suede, sull’onda di questa ripartenza, hanno pensato d’iscriversi sotto falso nome a una di quelle battle of the bands per principianti, da tenersi in qualche oscuro capannone di provincia. Anche questa una forma d’ostinata sincerità.