note anti sovraniste
La Filarmonica della Scala in Spagna, finalmente musica europea senza autarchia
Ai cugini spagnoli Riccardo Chailly ha portato un programma di normalità sinfonica “europea”, come farebbe qualsiasi orchestra e non solo tedesca: Prima di Beethoven e Prima di Mahler. Il diritto comunitario ha prevalso su quello nazionale
Barcellona – I politici italiani non frequentano i concerti, almeno quelli “classici”. Ed è un peccato perché, per esempio, l’ultima tournée della Filarmonica della Scala avrebbe potuto dare un contributo sensato all’attuale dibattito su europeismo, sovranismo, autarchia e via suonandole. Tre tappe in Spagna con Riccardo Chailly sul podio: Alicante, Madrid e gran finale lunedì al Palau de la Musica catalana di Barcellona, sublime sala da concerto con trionfo del liberty locale all’insegna del più ce n’è e meglio è (bellissimo, però: macché delitto, qui l’ornamento è diletto). Ora, le orchestre italiane che vanno in trasferta all’estero hanno da sempre un problema: il repertorio. Piaccia o non piaccia, siamo Il paese del melodramma, come da titolo del più bel libro sbagliato sull’argomento, quello di Bruno Barilli. Da questa parte delle Alpi, il sinfonismo è una conquista relativamente recente. Così ogni volta che si manda a suonare una nostra orchestra, deciso il dove si pone subito la questione di stabilire cosa. Fin dall’inizio, dalla prima tournée dell’Orchestra della Scala, a Parigi con Franco Faccio nel 1878 per celebrare, insieme, l’Esposizione universale e il centenario del teatro, azzardata fra mille perplessità e paure, comprese quelle di Verdi che si sfogò il 19 giugno di quell’anno con Clarina Maffei, oltretutto seccatissimo perché Faccio gli aveva chiesto consigli sul programma dopo averlo già deciso: “Hanno giuocato il cento contro uno. Se riescono guadagnano poco; se non riescono perdono quel po’ di riputazione e di prestigio che dà da lontano il vostro Teatro della Scala” (quel “vostro” è una meraviglia: Verdi era sì, ad honorem, un milanese, ma non imbruttito).
Molta acqua e molte tournée sono passate sotto i ponti da allora. Però di solito, con le dovute eccezioni, il programma tipo degli italiani all’estero prevede qualche ouverture di Rossini o di Verdi e l’immancabile Respighi, i Pini di Roma oppure le Fontane, invece le Feste romane, chissà perché, mai. Il sottoscritto rimembra ancora un viaggio americano della Filarmonica con sette-Pini-sette di fila: alla fine crescevano le fronde anche a me. Insomma, una sorta di sovranismo programmatico o, per restare alla deplorevole congiuntura politica e ai suoi temuti sviluppi, di autarchia musicale. E invece ai cugini spagnoli Chailly ha portato un programma di normalità sinfonica “europea”, come farebbe qualsiasi orchestra e non solo tedesca: Prima di Beethoven e Prima di Mahler. Diciamo che in questo caso il diritto comunitario ha prevalso su quello nazionale, insieme alla voglia orgogliosa di confrontarsi con gli omologhi europei su terreno comune (e la stagione del Palau non fa sconti: dai Berliner con Petrenko in giù ci sono – quasi – tutti), fuori dai recinti protetti del repertorio nazionale e giocandosela alla pari, senza gli abituali sensi d’inferiorità modello “portiamo a casa lo zero a zero”.
Alla fine, è andata assai bene, anche perché la Filarmonica, un’orchestra che non brilla per vastità di repertorio, queste due sinfonie le ha “in caldo” da sempre. Dunque, un Beethoven molto contrastato nell’agogica, giustamente scattante e brioso ma anche all’occorrenza solenne come un Haydn che ce l’ha fatta, e un Mahler davvero solido, al netto di qualche slabbratura negli attacchi e dell’acustica generosa di una sala non enorme che rende ipertrofico il suono di un organico orchestrale così nutrito. Quanto a Chailly, si sa che è un mahleriano di provata fede, lungo corso e gusto raffinato: si è perfino concesso il lusso involontario di perdere la bacchetta andata a sbattere sul leggio, e subito recuperata dai violini primi.
Accoglienza entusiasta, con molti applausi, ottime recensioni e, a Barcellona, anche una standing ovation terminale. Missione compiuta, bandiera mostrata. Tornando al 1878: “Io sono felicissimo d’essermi ingannato […] non credevo a un successo così netto. Mi si scrive anche che sarà… un succès d’argent. Mi sono sbagliato doppiamente”, come scrisse Verdi alla Maffei con l’abituale attenzione a quello che considerava la vera misura del successo: l’incasso (se è per questo, il Palau era strapieno). E a Faccio: “Trionfo che non è soltanto onore per Voi e per i vostri Professori, ma di tutto il paese”. Come se, tornando alla metafora politica, per una volta ci facessimo apprezzare non per la finanza creativa o gli espedienti last minute ma per i conti in ordine e le scadenze rispettate. Come un normale programma sinfonico normalmente ben eseguito, insomma.