Foto di Chris Pizzello, via LaPresse 

una star ancora anonima

Bob Dylan a Roma. Un libro racconta la sua favoleggiata esibizione al Folkstudio di Trastevere

Stefano Pistolini

Capitolo per capitolo la storia del musicista priva di incontrare la gloria e di un giovane amore finito male: quello per Suze, scappata in America prima che lui arrivasse, per cercare di riconquistarla, a Roma

Qualche anno fa Giovanna Marini, figura essenziale della musica popolare in Italia, raccontando cose vecchie, tirò fuori Bob Dylan. Si ricordava benissimo di lui ai tempi in cui – lei più grande di quattro anni – entrambi a malapena ventenni s’incrociavano sulle pedane dei folk club di Boston, dove Giovanna era andata a vivere per un po’. Pare che lui fosse uno insopportabile, strabordante, invadente e che soprattutto volesse suonare sempre lui, essere al centro dell’attenzione, impadronirsi della chitarra e cominciare a intonare le canzoni di un repertorio che all’epoca era tutto condiviso.

 

“Lo chiamavamo Zimmy: un rompiscatole”, ricordava affettuosamente Giovanna, parlando del ragazzino che ancora neanche era diventato Dylan. Di questo artista da cucciolo, della sua turbolenta formazione e in particolare di un episodio piuttosto mitico che ci tocca da vicino – ovvero del passaggio del giovane Bob Dylan da Roma e della sua favoleggiata esibizione al Folkstudio di Trastevere, il punto di ritrovo di appassionati e di espatriati che se la godevano nella Capitale – racconta un agile e prezioso libro del giornalista Francesco Donadio, intitolato Freewheelin’ in Rome. La vera storia della prima volta di Bob Dylan in Italia edito da Arcana e in uscita in questi giorni.

 

Che poi quello dei racconti favolistici di cosa veramente accadde la volta che un divo planetario si affacciò dalle nostre parti, è una specie di affascinante sottogenere, strettamente connesso al culto della cultura pop “pre”, prima – prima di Internet e della tecnologia diffusa, molto prima dei social, prima che un cellulare ci permettesse/costringesse d’essere sempre reperiti, prima che la circolazione delle notizie, quelle grandi ma anche quelle che riguardavano gli amici, fosse totale, documentata, impossibile da sfuggire.

 

E allora è probabile, non sicuro, ma plausibile che Jimi Hendrix dopo il concerto al Titan di Roma si sia lanciato per le strade della Dolce Vita a bordo di una 500 decappottabile guidata da un ineffabile presenzialista rock. O è inspiegabile come, durante il fulmineo passaggio dei Beatles da Roma per i due concerti (in un solo giorno) all’Adriano di Piazza Cavour, legioni di persone adesso raccontino d’averli incontrati e intrattenuti, col morbido beneficio del dubbio che il tempo è galantuomo, i ricordi sono sfumati e il confine tra ciò che ci piacerebbe fosse capitato e quel che davvero abbiamo vissuto si colloca a cavallo della nostra fantasia.

 

Per Dylan vale lo stesso e il valoroso lavoro di ricostruzione di Donadio, più che gettare luce su un episodio trascurabile della biografia dell’artista, diventa un godibile spaccato d’epoca sul “come eravamo”, l’aria che tirava tra chi aveva voglia di stare in the mix, sui brividi culturali e sottoculturali di una Roma scomparsa, sui germi formativi di quello che sarebbe diventato il più straordinario carosello della creatività. Nonché la cronaca di un capitolo, poco significativo, di una bella storia d’amore, quella tra due poco più che adolescenti: il tipetto arrivato a New York dal Minnesota con la voglia di farsi largo con la chitarra e le idee che gli venivano in mente di continuo e Suze Rotolo, la ragazza impegnata in ogni genere di cause civili, figlia di una famiglia di comunisti italoamericani del Queens, che si gravitava attorno alla scena folk, popolata com’era di gente interessante.

 

Due con una gran voglia di vivere e di esistere, due spugne capaci di assorbire ed elaborare, due magneti che si attraggono e si amano così forte, da innervosire chi li osserva, a cominciare dalle donne Rotolo – mamma Mary e la sorella Carla. Quando Suze, stanca dei tiraemolla amorosi da quel Bob troppo rapito dal suo ego, decide di andare a studiare l’italiano a Perugia e di levarsi di torno dal Village, Dylan diventa matto. Approfitta di un ingaggio a Londra e allunga la trasferta fino a Roma, per andare a riprendersela. Inutile: quando arriva, Suze è ripartita per l’America.

 

A Bob non resta che trascorrere qualche notte romana, vagando tra le rovine e cercando compagnia e bevute nei posti più familiari, come il folk club di Via Garibaldi, aperto da un connazionale. Ci arriva alticcio, corteggia le ragazze alla cassa, si fa prestare una chitarra, canta stonato e viene invitato a togliersi di torno. Beve un paio di bicchieri nel bar accanto e torna a inoltrarsi nel suo complicato futuro. La gloria è dietro l’angolo, l’amore no. L’Italia gli resta in mente in strani modi, semplici e turistici. Eppure quell’eco del suo momento prima della celebrità, dell’affascinante dimensione anonima della futura divinità ha un fascino irresistibile. Perché il passato spesso ci convince di una saggezza e una dolcezza che magari non c’era, ma che a noi piace attribuirgli, per il piacere di condividere qualche istante di unicità, prima di rituffarci nell’oceano del tutto-visibile, privo com’è di enigmi e segreti.

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