Il ritorno di Brian Eno
Il nuovo disco dell'artista è un’opera interamente dedicata al tema della preservazione dell’ambiente. Ammalianti e un po’ snervanti tappeti sonori sull’orlo della catastrofe
Brian Eno è uno che non ha mai preso sottogamba il look. La prima volta che l’abbiamo visto somigliava a un personaggio del “Signore degli Anelli”, ostentava una lunga coda di cavallo bionda, indossava una blusa turchese con dei futuribili alettoni e aveva il viso impastato di fard. Era bellissimo, ma quello era il lontano 1972: per la precisione, il posto era lo stagno del Crystal Palace, e all’improbabile orario di mezzogiorno, Eno saliva sul palco di un minifestival con la sua nuova band, i Roxy Music, all’esordio ma destinati a definire il canone di un glam rock ad alto tasso intellettuale, all’edificazione del quale lui contribuiva zompettando davanti a un gigantesco sintetizzatore Arp 2600, impersonando il mago dei suoni. Ingenua preistoria.
Adesso, superato il traguardo dei 70, Eno incarna (già: con lui si ha sempre la sensazione d’essere su un raffinato set di Artè) l’affascinante uomo di cultura post-tecnologica, con tanto di curatissima barba bianca e nella convinzione di utilizzare i propri lavori musicali come concept sociopolitici. Il 29esimo e nuovissimo titolo della sua discografia s’intitola ad esempio FOREVERANDEVERNOMORE, ed è un’opera interamente dedicata al tema della preservazione dell’ambiente, del fosco futuro che attente il pianeta e della cecità dei governanti occidentali, a cominciare da quelli britannici che lo riguardano più da vicino, distratti e insensibili all’argomento.
Se l’esposizione delle sue tesi non dovesse smuovervi granché, potrebbe invece interessarvi la notizia che con questo album Brian torna, dopo 17 anni, a ragionare sotto forma di canzoni (l’ultima volta era stata nel 2005 con l’ispirato e lodatissimo Another Day On The Earth), lasciando da parte le magie celibi e istantanee a cui ha lavorato per anni, allorché, ad esempio, si è dedicato all’interazione tra le risorse tecnologiche friendly di un semplice smartphone e la generazione casuale di ambienti sonori (principio ispirato all’idea che ciascuno possa diventare produttore spontaneo della propria musica). Stavolta, invece, qui si suona e canta attorno al tema dell’imminente estinzione che attende i nostri nipoti, se non si corre subito ai ripari. E lo si fa nell’abituale stile di Eno, musicando morbidi tappeti concentrici e digitali, al confine con le sonorità meditative. E poi cucendoci sopra, attraverso la sua imperturbabile vocalità, il lamento addolorato indirizzato all’auto-immolarsi a cui l’uomo si condanna, per l’incapacità di comprendere la Natura.
L’effetto è un’atmosfera affascinante e fatalistica, mossa dalle lievi increspature che la voce di Eno provoca sulla circolarità delle melodie, come un periscopio che affiori e torni a inabissarsi. Risultato: quaranta minuti d’ascolto governati da un’estrema equivalenza sonora – non c’è una canzone migliore e una peggiore – mentre la saggezza dell’artista è già tutta espressa nei titoli dei pezzi, nemmeno fossero haiku in cui il ritmo lascia spazio a una specie di materia musicale perenne. Qua là affiorano battiti che potrebbero essere cardiaci e sibili che sembrano provenire dal passaggio di un drone, finché la voce di Eno s’affaccia e con timbro cantilenante rilascia frasi che somigliano a profezie. Nell’interpretazione non c’è disperazione, ma una rassegnazione a cui si conforma anche la partecipazione vocale di sua figlia Darla, intonando l’inno dedicato all’avanzamento del riscaldamento terrestre. Del resto, nel breve saggio che accompagna l’album, Eno si dice convinto che l’artista contemporaneo sia soprattutto un mercante di sentimenti, un provocatore di agnizioni a effetto che quasi sempre hanno solo la durata del consumo della sua opera. Si delinea perciò con chiarezza la parabola espressiva percorsa dall’artista: la sua scelta, più che di impegno e denuncia, è quella di un decadentismo estetico, di un abbandono mistico sull’orlo della catastrofe. Una pre-raffaellita del XXI secolo, che innervosisce e ammalia, per come sa tradurre in questo formato misticheggiante le proprie fortune, le sue intuizioni e la crescente sensazione d’inerme, impotente debolezza.