Gustav Klimt, “Schubert al piano II”, 1899 

il foglio del weekend

Gli occhi che Schubert non voleva avere addosso

Stefano Picciano

Al cantante gli applausi, e nessuno bada allo schivo pianista. Ma tra lieder e sinfonie, il musicista viennese ha toccato le vette del romanticismo

"Quando andai a trovarlo era inverno e faceva molto freddo. Lo trovai in una stanzetta debolmente illuminata, umida e non riscaldata. Sedeva avvolto da una vecchia, logora camicia da notte (…) e scriveva”. Il compositore austriaco Anselm Huttenbrenner ci offre con queste parole un’immagine del suo amico Franz Schubert. A lui Schubert – che aveva la tendenza a smarrire le sue carte – affidò il quaderno contenente, appena usciti dalla penna dell’autore, i primi due movimenti di una sinfonia che Huttenbrenner avrebbe a lungo custodito nella sua dimora di Graz. Era il 1822. Il quaderno fu riposto in un cassetto e lì rimase per più di quarant’anni: ormai ingiallito dal tempo il manoscritto della Sinfonia in si minore venne ritrovato solo nel 1865 e fu la riscoperta di un’opera di eccezionale valore, destinata a porsi tra le pagine più alte di tutta la storia della musica.

   

Non è l’unico caso di opera dimenticata (anche la straordinaria Sinfonia in do maggiore venne “scoperta” da Robert Schumann solo nel 1839) nell’ambito della produzione di un compositore che, nel corso della sua breve esistenza, ottenne considerazione quasi esclusivamente per la sua produzione di lieder – brevi frammenti lirici su un testo poetico preesistente – e la cui opera strumentale rimase per lo più trascurata e incompresa non solo dal pubblico viennese ma persino dagli amici che lo ammirarono e gli vollero bene.

 

Sono costoro a descriverci il carattere timido e riservato, intensamente dedito solo alla composizione, di Schubert, lasciandoci di lui un’immagine dolce e malinconica, ritratta nei toni discreti di un percorso artistico consumato in dimore private e serate informali tra amici, assai lontano dai salotti di quella aristocrazia che, sola, poteva decretare il successo e la reputazione di un compositore. Un’esistenza interamente trascorsa a Vienna (con l’unica eccezione di alcuni brevi spostamenti in Ungheria) e priva di avvenimenti di rilievo che offrano elementi per una trattazione biografica, la quale deve in ultima analisi risolversi nell’esclusivo riferimento alle opere, che Schubert compose con straordinaria fecondità.

   

Figlio di un maestro di scuola della borghesia viennese, egli vive una giovinezza lacerata dall’attrito tra le convenienze sociali – il padre lo indirizza in ogni modo a proseguire il suo mestiere – e la flagrante, perentoria vocazione alla musica che, quasi imperativo categorico, si affaccia alla coscienza del giovane fin dagli anni della scuola. Già allora componeva con facilità estrema, su fogli rimediati e laceri in cui – non avendo la possibilità di acquistare carta da musica – tracciava egli stesso il pentagramma: “Prendeva il primo foglio che gli capitava – racconta un amico – e in pochi minuti era capace di scrivere (…) piccoli lieder, canoni, minuetti e così via, senza poi curarsi di che fine facevano, perché vi dava pochissimo valore”.

 

Le doti musicali, evidentissime fin dall’infanzia, culminano nello stupore del maestro a cui era stato affidato: “Quando volevo insegnargli qualcosa di nuovo accadeva sempre che lo sapesse già. Di conseguenza non gli ho davvero dato lezioni, ma spesso mi è capitato di intrattenermi con lui e guardarlo con silenziosa ammirazione”. I compagni d’infanzia ci offrono di lui un ritratto introverso, ma sempre incline al sorriso e alla generosità: “Si teneva in disparte anche durante le passeggiate, camminava con gli occhi a terra e le mani dietro alla schiena (…) completamente immerso in sé stesso”; assicurano tuttavia che in lui “non mancavano l’ironia e il buon umore”, come racconta anche un altro compagno: “Nell’amicizia era semplice e alla mano, assolutamente senza pretese”. Un’indole profonda e schiva, capace di amicizia sincera eppure poco incline alle convenzioni sociali perché incentrata unicamente sull’impegno creativo: “Fin da bambino – riferisce ancora un amico – Schubert ha sempre vissuto più che altro un’esistenza interiore, spirituale, che raramente si manifestava nelle parole, ma si rivelava potrei dire solamente attraverso le note. (…) Ridere lo vidi raramente, sorridere spesso, anche senza una ragione apparente, come se fosse un riflesso della sua vita interiore”. Estraneo a ogni volontà di affermazione, trattava le sue stesse composizioni con assoluta modestia e persino noncuranza, spesso regalandone il manoscritto appena ultimato agli amici: quante opere, in questo modo, siano andate perdute, non ci è dato sapere. “Schubert – leggiamo in una testimonianza – si curava poco dei suoi manoscritti. Quando andavano a trovarlo degli amici egli suonava loro i suoi nuovi lieder e se questi li trovavano belli se ne andavano via con il quaderno (…). Spesso non ricordava neppure a chi aveva donato questo o quel lied”. Era l’ingenuo candore di chi è incentrato unicamente sull’arte, che portò un amico a concludere: “E’ un uomo, ma sembra un bambino”.

 

Un carattere che, consolidato nella giovinezza, egli non perderà col passare degli anni: al termine di un concerto, il pubblico in teatro applaude invitando l’autore a salire sul palco; Schubert, che indossa una giacca troppo logora, sorride e rimane timidamente al suo posto. “Il suo carattere era semplice e buono”, raccontano i contemporanei, “egli rimase estraneo a ogni orgoglio e vanità”. “Talvolta – leggiamo – il cantante era coperto di applausi mentre nessuno volgeva il pensiero a quel piccolo uomo che sedeva al pianoforte e (…) aveva accompagnato i lieder da lui stesso composti”, e ancora: “Era abituato a essere ignorato, anzi ne era contento perché si sentiva meno imbarazzato”. Era solito schermirsi dinnanzi ai complimenti (o al limite rispondeva: “Spero che altre cose verranno ancora da me”) e spesso si sottraeva agli ospiti troppo ossequiosi appena era possibile. Come quella sera in cui, dopo aver accompagnato al pianoforte alcuni suoi lieder, si mise nell’angolo più nascosto della sala per poi recarsi addirittura nella stanza accanto, dove fu raggiunto dall’amico Huttenbrenner: “Senti, io non posso stare insieme a quelle donne con tutti i loro complimenti. Non pensano per niente le cose che mi dicono. Vai, Anselm, e portami per piacere un bicchiere di vino”. Le dimore private divengono cornice della creatività di un genio, attorno al quale nascono quei caratteristici raduni informali che, dal nome del loro partecipante più ammirato, presero il nome di schubertiadi: serate in cui musicisti, poeti, pittori e semplici amici si riunivano per leggere, conversare e – soprattutto – ascoltare musiche durante le quali “non era raro vedere gli ascoltatori commossi fino alle lacrime”. Egli li guardava forse meravigliato, con quegli gli occhi che “parevano più piccoli per l’abitudine propria dei miopi di socchiudere le palpebre”, da dietro gli occhiali rotondi – oggi esposti in una teca al Museo Schubert di Vienna – che portava sempre, spesso anche durante il sonno, quando questo giungeva improvviso sul finire di quelle lunghe serate: “Quando si faceva tardi non andava a casa – racconta un amico – ma si accomodava in un modestissimo letto nella mia stanza dove dormiva sempre benissimo, spesso con gli immancabili occhiali sul naso”.

 

Era in quelle circostanze che si manifestavano i frutti di una creatività incessante, che lo portava a concepire nuove pagine d’un tratto, a partire da provocazioni apparentemente casuali. Un giorno, andando a trovare un amico, Schubert si mise a sfogliare un libro di poesie di Wilhelm Müller che trovò per caso sul tavolo e poco dopo, d’un tratto, corse a casa per metterle in musica: “Nell’arco di una settimana l’intero ciclo dei Müllerlieder era composto e io credo che non ci sia mai stata prima tanta meravigliosa unità tra poesia e musica”, ricorda l’amico Randhartinger. In un’altra occasione, trovandosi al castello degli Esterhazy, sentì una cameriera canticchiare, in cucina, una melodia popolare ungherese: “Per un po’ di tempo rimanemmo ad ascoltare (…), a Schubert evidentemente piaceva, e avviandosi verso casa continuò a mormorarla fra sé”. La troviamo, oggi, nel Divertimento op. 54.

 

Qualcosa di analogo avvenne per il Trio op. 100 – tra le opere più note dell’autore – nel quale troviamo melodie popolari che Schubert ascoltò in alcune occasioni informali. Gli amici erano divertiti dalla sua straordinaria creatività e spesso gli proponevano testi per i suoi lieder; uno di loro racconta del giorno in cui una nobile signora diede a Schubert un testo poetico, pregandolo di metterlo in musica: “Schubert prese la poesia, si avvicinò a una finestra, lesse attentamente e si rivolse a lei sorridendo: ‘L’ho già pronta e verrà piuttosto bene’”.

 

Rinunciando al tentativo di un’affermazione teatrale, per lo più respinto dagli editori che mostrarono di non comprendere la sua musica, sottovalutato anche sul piano delle opere strumentali il cui valore sarebbe stato riconosciuto solo molti anni dopo, è nel lied che in vita Schubert ottenne successo. Più di seicento pagine nell’arco di quattordici anni, in cui egli tocca tutti i temi che riconosciamo fondamentali nella poetica romantica: la nostalgia, il tempo, la lontananza, il viaggio sono alcuni dei contenuti che vi troviamo riflessi. In questi lavori l’animo del compositore è costantemente rivolto ad una meta che sempre rimane al di là del sentiero percorribile, divenendo icona di universale incompiutezza, di strutturale insoddisfazione, di quell’anelito verso l’altro da sé che bene si incarna nella figura del viandante, suggestiva immagine che rappresenta forse il cuore della sehnsucht romantica. In Schubert, che per tutta la vita rimase nei pressi dei confini austriaci, quella del Wanderer è dimensione esclusivamente interiore, fondata sulla ricerca di una patria, cioè di una quiete che, pur intravista, rimane lontana: “Sono straniero ovunque. / Dove sei, terra mia adorata? / Cercata, immaginata, e mai trovata? / (…) Vago silenzioso, infelice, / e sempre sospirando chiedo: dove?”. Tornano alla mente, in una suggestione tra contesti lontani eppure unificati da un comune sentire, le parole di Ernst Jünger quando scrive che “la sorte umana è il distacco da ogni luogo e da ogni casa ove sostammo”, o certa sensibilità di Ungaretti (“in nessuna parte di terra mi posso accasare”) oltre che la perentoria affermazione del greco Kazantzakis: “Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!”.

 

Qui, in modo segnatamente romantico, l’oscurità notturna si fa generatrice di una visione in cui tra la nebbia, come nell’opera di Friedrich, il viandante intravede l’agognata alterità: ciò ch’è lontano pare rapito dal buio, che sottraendo allo sguardo l’orizzonte mette in risalto ciò che è vicino, anzi interiore, divenendo condizione per un più profondo svelamento di sé.

 

“Nella musica di Schubert – scrive Enrico Fubini – si avverte chiaramente un vagare (…), vi è una specie di circolarità senza fine. Il tema del Wanderer, così caro allo Schubert liederistico, in realtà informa di sé tutta la musica strumentale”. Accade così che l’autore stesso si trova a confondere i toni di sentimenti apparentemente opposti, in una commistione di inquietudine e letizia che sempre coesistono nelle sue opere: “Quando volevo cantare l’amore – confidò lui stesso – non sapevo esprimere che il dolore, e se allora volevo cantare il dolore esso diveniva amore”. Fu forse questa circolarità, questa impossibilità di approdare alla meta a generare quella stimmung ineffabile, quel sentimento che Schlegel, con parole di rara pregnanza, definì “un aggirarsi presago nei pressi dell’inavvicinabile”.  Una vertigine che l’ascoltatore di oggi può ritrovare in tutta l’opera di Schubert, dai quartetti alle sinfonie, dalle pagine per pianoforte ai lieder del ciclo Winterreise, che l’autore continuò a rivedere e correggere ancora negli ultimi giorni, fino alle molte pagine strumentali di cui i contemporanei non riconobbero il valore. Ma qualcuno di certo lo intuì e scrisse che “la musica di Schubert (…) rimane un tesoro per tutti i tempi, e i musicisti non ancora nati raccoglieranno questo ricco tesoro”.

Di più su questi argomenti: