Il Foglio del Weekend
J. J. Cale, il rocker timido
Dietro i più grandi successi di Eric Clapton, suonati in concerto a Bologna, c’è lui: una vita in disparte per sfuggire alla fama
Di tanto in tanto mi reco agli spettacoli d’un amico che si diletta in ciò che usualmente viene chiamata “Stand Up Comedy”. Sta in piedi sul palco di piccoli locali di provincia che sono tutti impregnati del medesimo odore e affronta il pubblico col solo aiuto d’una chitarra che sistema su un trespolo in maniera tale che non occorra sostenerla con la tracolla: fa un passo di lato, impone le mani sullo strumento e inizia a suonare e cantare. Dacché lo conosco l’ultima canzone dei suoi spettacoli è sempre stata “Azzurro”. Ogni volta prima dell’ultima strofa – quella di “Cerco un po’ d’Africa in giardino tra l’oleandro e il baobab” – chiede al pubblico se, per caso, conosca il nome dell’autore della canzone ed è sempre un divertimento vedere la sua faccia quando qualcuno urla a squarciagola “Adriano Celentano!”. Allora scuote la testa e ride: “No. Non è Adriano Celentano. E’ Paolo Conte!” (più precisamente “Azzurro” è di Vito Pallavicini e Paolo Conte, ma in determinate circostanze è inutile spaccare il capello in quattro). Ma non lo fa per prendere in giro il pubblico, tutt’altro. “Lo faccio perché magari qualcuno torna a casa sorpreso e ascolta la versione di ‘Azzurro’ di Conte. Quella con solo piano e voce. Se gli piace è molto probabile che si metta ad ascoltare qualcos’altro e non è detto che non s’affezioni. La qualità della vita è molto migliore se si ascoltano le canzoni di Paolo Conte”.
Questa cosa del mio amico m’è venuta in mente assistendo, all’inizio d’ottobre, al concerto di Eric Clapton all’Unipol Arena di Bologna, quando tra una marea di sospensioni di telefonini riprendenti, che non si riusciva a vedere un accidente, nel visibilio più assoluto, l’artista ha attaccato “Cocaine”. Se, in effetti, ci sarebbe qualcosa da refertare sulla sanità mentale di chi in platea rimane con le braccia alzate in aeternum per riprendere col telefonino l’intero concerto, al contrario non c’è proprio nulla da discutere sul gran visibilio che ha accolto la canzone. Chi ha l’età giusta conosce esattamente l’elettrizzante sensazione che si provava quando la puntina del giradischi scendeva sulla prima traccia del vinile di “Slowhand” e risuonavano le prime e, come si è soliti dire oggi, “iconiche” note di “Cocaine”.
Però, esattamente come fa il mio amico nei suoi spettacolini, sarebbe bello chiedere alla folla prima che Clapton inizi a cantare il verso che dice “If your thing is gone / And you want to ride on / Cocaine” se hanno una qualche idea su chi abbia scritto la canzone per cui stanno così tanto visibiliando. Anche in questo caso non è una domanda che si pone per vestire i panni del sovracciò, niente affatto, ma semplicemente perché, come accade con Paolo Conte, accompagnare un tratto della propria vita ascoltando la musica del quasi sconosciuto autore di “Cocaine”, J. J. Cale, ne migliora grandemente la qualità.
In realtà l’epopea di questa canzone era iniziata un po’ d’anni prima, grazie all’inaspettatissima riscoperta di “After Midnight”.
“Beh, non è che nel 1970 me la passassi tanto bene. Lavoravo in uno studio di registrazione che, francamente, non era troppo frequentato e perciò di soldi se ne vedevano davvero pochi. Facevo anche qualche lavoretto extra, ma poca roba. Perciò potrei dire che ero nella miseria nera. Sì, potrei dire proprio dire che mi trovavo in quella condizione. Oltre a ciò avevo anche più di trent’anni che è un’età un po’ aldilà del ragionevole limite in cui si può pensare di avere delle possibilità per continuare a lavorare nel mondo dello spettacolo. Insomma non è che avessi proprio delle belle sensazioni, ma un giorno, mentre ero in macchina, alla radio hanno passato ‘After Midnight’ che era una canzone che avevo inciso quattro anni prima e che non era mai interessata a nessuno. La cantava Eric Clapton. Mi son fermato sul ciglio della strada e ho aspettato che finisse. Ero sicuro di essere sobrio e mi pareva proprio che tutto fosse accaduto per davvero. Poi la gente ha cominciato a dirmi ‘Hey J. J. ho sentito After Midnight alla radio, l’hanno passata stamattina’. Dopo così tanti anni non ho ancora capito chi l’avesse fatta ascoltare a Eric Clapton. Carl Radle, che era stato il mio bassista, m’ha detto di averla suonata e cantata durante le registrazioni del primo disco solista di Clapton e che a lui era piaciuta così tanto che ha voluto inciderla subito. Altri dicono che sia stato Leon Russel, che conservava il mio vecchio 45 giri, a farla ascoltare a Clapton. Insomma ancora oggi non so chi devo ringraziare, fatto sta che sono cominciati ad arrivare i soldi dei diritti d’autore e posso dire che quello è stato proprio un bel momento”.
Da allora le carriere di Eric Clapton e di J. J. Cale hanno preso a incedere parallelamente. Il successo di “After Midnight” ha dato una rinnovata spinta alla reputazione di Clapton e, al tempo stesso, ha dato grande credito all’autore del pezzo che, dopo cinque anni, ha potuto riprendere a incidere e a disporre sulla bancarella nuovi esemplari di canzoni che altri apprezzavano e poi riproponevano.
In questo senso “They Call Me The Breeze” e, soprattutto, “Cocaine” rappresentano tutt’ora due esempi eclatanti.
“Beh, quella che gli altri riprendessero le mie canzoni con così tanto successo era la cosa migliore che mi potesse capitare. Perché è una situazione che ti porta ad avere il successo dal punto di vista economico, ma senza tutti gli spiacevoli inconvenienti della fama. ‘After Midnight’ e ‘Cocaine’ sono state combinazioni, non riesco a spiegarmi meglio, che hanno la stessa possibilità di riuscita di quando si scava una buca in giardino per piantare qualcosa e, all’improvviso, salta fuori il petrolio. Un getto continuo di petrolio, che all’inizio ti rende contento perché non te la passi per niente bene, ma poi comincia a essere un tantino un grattacapo perché non sei mica abituato a tutti quei soldi. Così ho cominciato a investirli davvero in pozzi petroliferi giù in Texas, ma poi ho pensato fosse meglio costruirmi uno studio di registrazione in casa così da andare a registrare quando mi pareva. Perché in fondo la cosa che più mi piace di tutto questo successo è che non sono più costretto ad avere un orario di lavoro”.
D’altro canto è del tutto comprensibile ritenere che una canzone come “Cocaine” possa appartenere al repertorio originale di Clapton, perché in perfetta sintonia con le alterne corde della sua vita. Un artista che ha attraversato la creativissima Inghilterra degli anni 60, i Beatles, i Cream, il Green Manalishi, Patty Boyd (prima moglie di George Harrison e poi di Clapton) e poi tutte le vicende confusionarie e tragiche nell’esistenza del chitarrista. Al contrario è affatto inaspettato scoprire come il vero autore sia un musicista nato in un luogo musicalmente improbabile come Tulsa in Oklahoma e che, dopo il successo delle sue canzoni, abbia preferito vivere appartato, in case mobili possibilmente senza telefono e in compagnia d’un cane. Ogni volta che lo si ascolta in disco oppure si ripercorrono i video dei concerti o delle interviste si avverte nettamente il distacco dal parossismo del rock’n’roll. J. J. Cale è sempre parso, nella sua filosofia musicale, piuttosto un musicista di jazz, uno di quelli che finisce sempre per dire: “Quando stai per cominciare una canzone e hai in mente un tempo, beh, rallentalo, altrimenti non sei tu che suoni la canzone, ma è la canzone che suona te e, a meno d’un miracolo, non è per niente una buona cosa”.
Del resto l’origine jazz di “Cocaine” non è mai stata un segreto.
“Beh, volevo fare una canzone che avesse il mood trattenuto di Mose Allison. Oltre che come band leader mi piace molto anche il suo modo di usare la voce: un timbro un poco nasale che pare disinteressarsi del brano che sta cantando, come se osservasse la canzone da lontano. In realtà tutto il disco ‘Troubadour’ doveva avere quell’aria e ci sono canzoni in cui si sentono proprio quegli accenti, ma quando il produttore (Audie Ashword) ha ascoltato ‘Cocaine’ ha detto ‘Cristo Santo, questa è una gran bella canzone, ma secondo me è meglio dargli un’aria un po’ più rock’n’roll per renderla più appetibile’, così ho un po’ più pronunciato il riff, ma per il resto ho mantenuto il fraseggio iniziale. Poi, un anno dopo, c’ha pensato Clapton in ‘Slowhand’ a ottenere quello che Audie voleva precisamente da me”.
Tuttavia, c’era da aspettarselo, in America una delle grandi questioni che riguardavano “Cocaine” era se fosse o meno una canzone che inneggiava alla droga. Evidentemente il fatto che Eric Clapton alla fine degli anni 70 (“Slowhand”, l’album che conteneva il pezzo, uscì alla fine del 1977) fosse palesemente drugs addicted non favoriva la reputazione della canzone, ma la questione era comunque posta alla persona sbagliata, visto che l’autore del brano era appunto J. J. Cale. Comunque nessuno s’è preso mai la briga di raggiungerlo in qualche luogo sperduto della Contea di San Diego per chiederglielo, soprattutto perché se le domande diventavano troppo personali l’artista diventava così schivo da non rispondere più a nulla. Il massimo dell’intimità che un giornalista riuscì a estorcergli fu un gemito di dolore per la recente perdita di Buddy, uno spaniel inglese. “La vita senza un animale è difficile. Volevo bene a quel vecchio cane, adesso aspetterò un poco e poi ne prenderò un altro”.
Persino del matrimonio con Christine Lakeland si discute ancora: nessuno dei due ha mai chiarito la posizione famigliare e le questioni ereditarie dopo la morte di J. J. Cale, avvenuta improvvisamente il 26 luglio del 2013, sono rimaste asserragliate tra le mura d’uno studio legale di San Diego, California, così come, evidentemente, la spinosa questione se “quel brano” fosse una canzone che inneggiava o meno alla droga.
Fatto sta che, per quanto mi riguarda, è stato impossibile non pensare a John Weldon “J. J.” Cale quando Eric Clapton ha attaccato “Cocaine” a Bologna. Ma, come già spiegato, non è affatto lo sfizio d’un puntiglioso. Basta leggere qui e là e si scoprirà che persino un tal Neil Young, uno che ha avuto a che fare con due musicisti che si chiamano Stephen Stills e David Crosby, ha scritto nella sua biografia: “J. J. Cale in tantissimi dei suoi riff ha suonato la chitarra in modo pazzesco, eppure non la suonava a volume alto. Per questo amavo tantissimo la sua sensibilità. Di tutti i chitarristi elettrici che ho ascoltato soprattutto due mi hanno sconvolto per la loro incredibile musicalità: Jimi Hendrix e J. J. Cale. Per quanto fossero diversi possedevano ‘quella cosa’ mentre suonavano la chitarra. ‘Quella cosa’ che dopo così tanti anni di musica non riesco ancora a spiegare. Probabilmente se riuscissi a spiegarla sarei alla loro altezza, ma, maledizione, non ci riesco proprio”.